Tra i 53 indagati Fratoianni (Sel), Pentassuglia (Pd) e Nicastro (Idv) Vendola indagato per il disastro Ilva di Taranto Il governatore della Puglia accusato di aver tentato di ammorbidire l'Arpa Puglia sulle emissioni nocive era al servizio dei riva: Deve dimettersi C'è anche Nichi Vendola, il governatore trotzkista neoliberale della Puglia, tra i 53 indagati che il 30 ottobre hanno ricevuto un avviso di conclusione indagini preliminari da parte della procura di Taranto che da oltre quattro anni è impegnata nell'inchiesta "Ambiente svenduto" inerente il disastro ambientale provocato dall'Ilva di Taranto. Il capobastone di Sel è accusato di concussione aggravata in concorso ai danni del direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, perché, sostiene la Procura, il governatore pugliese su richiesta dei padroni Riva ha fatto pressioni su Assennato affinché ammorbidisse i controlli nei confronti del siderurgico tarantino. Vendola, scrivono i Pm "abusando" della sua funzione, "mediante implicita minaccia della mancata riconferma nell'incarico ricoperto, costringeva il direttore di Arpa Puglia ad 'ammorbidire' la posizione di Arpa nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva, consentendole di proseguire l'attività produttiva ai massimi livelli, senza perciò dover subire riduzioni e rimodulazioni". Una condotta criminale che Vendola ha messo in atto grazie all'aiuto di diversi boss politici, funzionari ministeriali e locali, membri delle forze dell'ordine, un ex consulente della procura e perfino un sacerdote. Infatti per il reato di favoreggiamento nei confronti di Vendola, risultano indagati anche l'assessore regionale all'ambiente Lorenzo Nicastro (IDV), il parlamentare di Sel Nicola Fratoianni (all'epoca assessore regionale), il consigliere regionale del Pd Donato Pentassuglia, l'ex capo di gabinetto di Vendola, Francesco Manna, l'attuale capo di gabinetto, Davide Pellegrino, e il dirigente del settore Ambiente della Regione, Antonello Antonicelli. Nel registro degli indagati figurano anche lo stesso dg di Arpa Puglia Assennato e il direttore scientifico dell'ente regionale, Massimo Blonda, per aver eluso le indagini dell'autorità giudiziaria "fornendo dichiarazioni mendaci e reticenti al fine di assicurare l'impunità a Vendola". Negli atti dell'inchiesta Vendola è indicato come protagonista di una "vicenda concussiva in danno del direttore regionale di Arpa Puglia Giorgio Assennato" e chiamato in causa per l'ipotesi di "mancato rinnovo nell'incarico, in scadenza nel febbraio 2011, per effetto delle sollecitazioni rivolte al governatore Vendola ed ai suoi più stretti collaboratori - tra gli altri l'allora capo-segreteria, Manna - proprio dai vertici Ilva". Accuse gravissime confermate tra l'altro dalle informative della Guardia di Finanza in cui tra l'altro si sottolinea che: "all'esito di quella vicenda concussiva e per effetto di essa, in realtà il prof. Assennato ridimensionerà (nei confronti dell'Ilva, ndr) il proprio approccio, fino a quel momento improntato al più assoluto rigore scientifico". In sostanza, le pressioni di Vendola, secondo l'accusa, hanno permesso all'Ilva di neutralizzare l'azione di controllo dell'Arpa. Pur di favorire i padroni dell'Ilva, il governatore pugliese ha mobilitato un intero apparato politico amministrativo che dalla Regione arriva fino alle amministrazioni provinciali e comunali con alla testa l'ex presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, e l'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva arrestati entrambi a maggio scorso con l'accusa di aver fatto pressione su alcuni dirigenti perché concedessero all'Ilva l'autorizzazione all'utilizzo delle discariche interne (poi autorizzate con decreto del governo) e del sindaco di Taranto Stefano, accusato anche di non aver messo in atto come primo cittadino le misure necessarie per bloccare i danni alla salute dei tarantini causati dall'azienda. Tra i protagonisti dell'inchiesta, con accuse gravi e infamanti che vanno dall' associazione a delinquere finalizzata ai reati ambientali, disastro ambientale e sanitario, figurano anche i padroni della famiglia Riva: Emilio, Nicola e Fabio; Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento, Girolamo Archinà, ex consulente Ilva, Francesco Perli, legale dell'azienda, e di Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino ed Enrico Bessone, ossia i "fiduciari" dei Riva nel siderurgico che, come si legge nel provvedimento della magistratura tarantina: "Provvedevano ad intrattenere costanti contatti al fine di individuare le problematiche che non avrebbero consentito l'emissione di provvedimenti autorizzativi per Ilva, concordando possibili soluzioni, individuando soggetti di vari livelli (politico-istituzionale, mass media, organizzazioni sindacali, settore scientifico, clero) da contattare, disposizioni da impartire a funzionari e incaricati di vari uffici, concordando in anticipo il contenuto di documenti ufficiali da inviare all'Ilva al fine di ridimensionare problematiche anche gravi in materia ambientale, per consentire la prosecuzione dell'attività produttiva in totale violazione e spregio della normativa vigente". Tra gli indagati anche l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, presidente del Cda dell'Ilva da luglio 2012 ad aprile scorso e Dario Ticali, capo della commissione Ippc che il 4 agosto 2011 rilasciò all'Ilva l'Autorizzazione integrata ambientale, che deve rispondere di "Abuso e rivelazione di segreti d'ufficio in concorso". Insieme a loro anche i funzionari: Luigi Pelaggi (ministero dell'Ambiente) e Pierfrancesco Palmisano (Regione Puglia). Altro che "amministrazione senza ombre", altro che "abbiamo tenuto la schiena dritta di fronte ad Emilio Riva, sul cui libro paga non ci siamo mai stati" come sostiene vergognosamente Vendola. Come risulta dalle intercettazioni telefoniche tra Vendola e l'uomo degli affari sporchi dei Riva, Girolamo Archinà, vedi articolo ad hoc e riquadro in questa stessa pagina, il governatore pugliese da una parte faceva finta di difendere i lavoratori e la popolazione e, dall'altra se la rideva letteralmente alle loro spalle. Tanto è vero che lui stesso non ha mai nascosto di avere "una stima reciproca coi Riva" ossia di essere da sempre completamente asservito ai loro sporchi interessi. Perciò noi chiediamo le sue immediate dimissioni e riaffermiamo che l'unica strada in grado di salvaguardare insieme e contestualmente salute, ambiente e lavoro è la nazionalizzazione dell'Ilva senza indennizzi per i pescecani Riva, che anzi devono pagare tutti i costi inerenti i danni dell'inquinamento a Taranto e della bonifica dello stabilimento: e se non lo faranno tempestivamente devono rispondere con tutti i loro patrimoni da confiscare per via giudiziaria. Solo con la nazionalizzazione dell'Ilva si può e si deve porre sotto il diretto controllo dei lavoratori e della popolazione tarantina l'intero ciclo produttivo affinché siano prioritariamente garantiti e tutelati i diritti e la salute dei lavoratori e di tutti gli abitanti dei quartieri circostanti. Un piano complessivo che tuteli salute, lavoro e ambiente e impedisca la smobilitazione di questo settore strategico per il nostro Paese che non può tornare indietro come ai tempi del vecchio siderurgico Italsider, che certamente non era così inquinante come lo è diventato oggi, ma che comunque non aveva gli standard di sicurezza e tutela ambientale pretesi oggi giustamente e in modo combattivo dai lavoratori e dalle masse popolari tarantine. 20 novembre 2013 |