Riscritte le regole della contrattazione e della rappresentanza sindacale secondo gli interessi dei padroni e del governo Berlusconi L'accordo Confindustria-sindacati restaura le relazioni industriali mussoliniane introdotte da Marchionne alla FIAT La CGIL della Camusso capitola. La sinistra della CGIL boccia merito e metodo. Tremonti elogia tutti i firmatari. Sacconi: "Pomigliano e Mirafiori hanno aperto la strada alle nuove relazioni industriali". Il contratto nazionale può essere sostituito con quello aziendale. Sostituite le RSU elette dai lavoratori con le RSA nominate dai sindacati firmatari degli accordi. Non previsto il voto dei lavoratori. Limitato il diritto di sciopero. Introdotta la soglia di sbarramento sindacale del 5% Respingere l'infame accordo nel sindacato, nelle fabbriche e nelle piazze Il 28 giugno, dopo solo due giorni di trattative (chiaro segno che l'intesa era già definita precedentemente in incontri riservati), il presidente di Confindustria Marcegaglia e i segretari di CGIL, CISL e UIL, hanno siglato un accordo in otto punti che ridisegna completamente le regole della contrattazione e della rappresentanza sindacale. Un accordo da respingere integralmente nel metodo, perché raggiunto in totale disprezzo della democrazia sindacale, su un testo di cui le principali categorie interessate, con in testa la FIOM, non sono state informate che a cose fatte e che non hanno avuto la minima possibilità di discutere preventivamente. E da respingere integralmente nel merito, perché rappresenta una capitolazione totale della CGIL sia alla linea filopadronale e filogovernativa dell'accordo separato del 2009 tra la Confindustria e i leader collaborazionisti di CISL e UIL, Bonanni e Angeletti, sia alle nuove relazioni industriali mussoliniane imposte da Marchionne alla FIAT. In sostanza Susanna Camusso ha azzerato in un colpo solo due anni di opposizione e di lotte della CGIL, con in testa i metalmeccanici della FIOM, a quell'infame accordo, garantito dal governo neofascista Berlusconi, che intendeva mettere fine al contratto collettivo nazionale in favore di una contrattazione aziendale di stampo corporativo e filopadronale, e all'attacco fascista e schiavista di Marchionne ai più elementari diritti sindacali e individuali dei lavoratori in fabbrica. Firmando questo accordo, infatti, costei ha compiuto una svolta di 180 gradi, accettando in pieno e senza alcuna contropartita, che non sia solo puramente propagandistica, quell'accordo separato collaborazionista e quella linea mussoliniana del nuovo Valletta della FIAT. Dichiarazioni trionfali rivelatorie Basterebbero ampiamente, a dimostrarlo, le dichiarazioni dei vari protagonisti della trattativa, quelli ufficiali e quelli occulti. A cominciare dalla stessa leader della destra CGIL, che ha candidamente ammesso: "L'ipotesi di accordo con Confindustria supera la stagione degli accordi separati. Si è aperta un'importante fase nuova, possiamo riavviare il percorso partendo dalle cose che ci uniscono". Segno evidente che quel che a lei premeva non erano gli interessi dei lavoratori iscritti alla CGIL, ma solo ricomporre, anche a prezzo di un vero e proprio viaggio a Canossa, la frattura con i leader collaborazionisti di CISL e UIL. Che da parte loro, viceversa, non hanno dovuto concedere nulla, e infatti cantano vittoria, come ha fatto il crumiro Bonanni dichiarando che questo accordo rappresenta "l'ultimo decisivo tassello della riforma della contrattazione collettiva del gennaio 2009". O come ha fatto il rappresentante della UILM, Rocco Palombella, che ha dichiarato senza alcun pudore: "L'intesa sottoscritta ripaga noi, ma presumo anche la FIAT, di tante battaglie comuni. Va dato il giusto merito alla FIAT che ha dato un vero scossone al sistema delle relazioni industriali". Stessa identica musica da parte di Emma Marcegaglia, per la quale "l'accordo interconfederale è stato trovato nel più breve tempo di sempre. Si chiude una stagione di divisioni". Per non parlare del ministro del Lavoro, Sacconi, che ha così commentato in tono trionfale: "Pomigliano e Mirafiori hanno aperto la strada a nuove relazioni industriali e alla fine del Novecento ideologico". Arrivando anche a svelare gli altarini con l'ammettere di aver "avvertito un cambiamento di clima quando la CGIL ha condiviso l'accordo sull'apprendistato". Il ministro dell'Economia Tremonti, poi, già alcune ore prima dell'annuncio ufficiale della firma aveva ringraziato i quattro contraenti "per quello che hanno fatto nell'interesse del nostro Paese", salutando evidentemente l'accordo come parte integrante, o comunque collaterale, della manovra di lacrime e sangue da 47 miliardi preparata dal governo. Esulta pure il PD liberale, e non solo i suoi esponenti di ex area cislina, come Treu, D'Antoni e Marini, ma anche il suo vertice bersaniano, come il responsabile economico del partito Stefano Fassina, per il quale l'accordo è "un grande passo avanti sul terreno della democrazia e sul terreno dell'efficienza e della competitività di sistema", nonché "un tassello fondamentale nella strategia di modernizzazione dell'Italia": e questo la dice lunga sui veri mandanti politici della capitolazione della CGIL a Confindustria e governo. Ora tutti possono toccare con mano ciò che il PMLI aveva denunciato per tempo, mettendone in guardia i lavoratori, fin dalla sua elezione alla direzione della CGIL: che cioè la destra Susanna Camusso era stata chiamata a succedere a Epifani per ricomporre la frattura con i crumiri Bonanni e Angeletti e con la Confindustria in nome degli interessi supremi del capitalismo nazionale. Forti dissensi nella sinistra della CGIL e nei "sindacati di base" Contro l'accordo si sono invece espressi in varia misura la sinistra della CGIL e le organizzazioni "sindacali di base", come USB e Cobas. Dopo un acceso scontro nel Comitato centrale della CGIL tra i dirigenti dei metalmeccanici e la segreteria, il segretario della FIOM, Landini, ha chiesto alla Camusso, che si appresta a far ratificare l'accordo al Direttivo dell'11 luglio, di "sospendere la firma fino alla conclusione della consultazione che dovrà essere fatta solo tra gli iscritti alla CGIL e nelle sole categorie coinvolte nell'intesa, senza estenderla anche a quelle che non sono toccate dall'accordo siglato". Per Landini il giudizio sull'accordo è negativo in quanto rappresenta "un cedimento della CGIL su almeno due punti fondamentali: non c'è l'obbligatorietà del voto dei lavoratori e si apre alla possibilità di deroga al contratto nazionale". Ancor più esplicito Giorgio Cremaschi, presidente del CC della FIOM e membro della Segreteria nazionale dell'organizzazione, che ha definito senza mezzi termini l'accordo "un porcellum", chiedendo le dimissioni della Camusso, in quanto "è venuta meno allo spirito e alle stesse norme statutarie della confederazione", e il ritiro della firma della CGIL all'intesa; e ha invitato in ogni caso a mobilitarsi "per contrastarla e rovesciarla". Analoga posizione è stata espressa da un comunicato dell'Unione sindacale di base (USB), che ha definito l'accordo "uno degli atti più vergognosi nella storia delle relazioni sindacali" e "la santificazione della dottrina Marchionne", mentre un documento di SLAI Cobas ha parlato di "golpe di CGIL-CISL-UIL e Confindustria che firmano la controriforma autoritaria alla Marchionne della rappresentanza sindacale, della contrattazione e del diritto di sciopero". Particolarmente significativa una presa di posizione dei delegati sindacali del gruppo Marcegaglia, che giudicano "gravemente negativo" l'accordo interconfederale, "sia in materia di diritto dei lavoratori di votare gli accordi, sia in materia di derogabilità dal contratto collettivo nazionale". Ma vediamo, almeno per sommi capi, perché anche nel merito quello firmato il 28 giugno un accordo capitolazionista e collaborazionista ed è da respingere risolutamente nel sindacato, nelle fabbriche e nelle piazze. Grave attacco al diritto di sciopero Fin dalla premessa il suo carattere filopadronale e filogovernativo emerge chiaramente dove si subordina la contrattazione in generale alla "competitività dell'impresa" e la contrattazione collettiva "alle differenti necessità produttive da conciliare con il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone": vale a dire che la contrattazione collettiva e i diritti dei lavoratori possono essere "derogati" a seconda delle necessità produttive delle singole aziende, tanto che diventano preminenti "lo sviluppo e la diffusione della contrattazione aziendale" e la "certezza" degli accordi aziendali. A questo proposito, all'articolo 6, si apre la strada a un gravissimo attacco al diritto di sciopero, con la facoltà di definire nei contratti aziendali "clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l'esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva". Per ora solo a carico delle organizzazioni sindacali "e non per singoli lavoratori" (il diritto di sciopero è individuale e garantito dalla Costituzione), ma intanto è stato fatto un altro passo di avvicinamento anche a questo. La rappresentanza sindacale dovrà essere "certificata" dall'INPS (in base ai contributi sindacali raccolti dalle stesse aziende, articolo 1): il che, unitamente all'introduzione di una soglia di sbarramento del 5% (del totale dei lavoratori, non dei soli iscritti alla categoria), rende le aziende e le tre confederazioni maggioritarie che si avvalgono dei versamenti delle quote via azienda-INPS, praticamente arbitre dei criteri della rappresentanza stessa. I contratti aziendali vincolano tutte le organizzazioni sindacali firmatarie dell'accordo a rispettarli, anche se dissenzienti (art. 4). Basterà che i contratti siano votati dal 50% più uno dei componenti le RSU (Rappresentanze sindacali unitarie). Non è previsto cioè il voto dei lavoratori sui contratti aziendali (art. 5). Basterebbe quindi che CISL e UIL avessero in due la maggioranza semplice nelle RSU per far passare accordi-capestro alla Marchionne, anche se paradossalmente la CGIL avesse da sola il doppio dei delegati di ciascuna di esse. Dove ci sono invece le RSA (le Rappresentanze sindacali aziendali nominate dalle federazioni di categoria) può essere richiesto il referendum tra i lavoratori: ma solo entro 10 giorni dal contratto, da parte di una delle organizzazioni firmatarie (il che esclude quelle che non hanno "diritto di rappresentanza"), oppure almeno dal 30% dei lavoratori. Inoltre perché il referendum sia valido occorre superare un quorum del 50% più uno degli aventi diritto. In sostanza, dove i delegati sono eletti dai lavoratori non si vota, e dove si vota (con tutte le limitazioni suddette) i delegati rispondono direttamente alle direzioni sindacali e non ai lavoratori: il modello Marchionne, insomma. Nella logica degli accordi-capestro separati di Marchionne Particolarmente grave a proposito di quest'ultimo è l'articolo 7, che in "situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi" (guarda caso come alla FIAT) concede la possibilità di "intese modificative" al contratto nazionale riguardo alla "prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro": anche se non si chiamano esplicitamente deroghe, è chiaro che si tratta della trasposizione pari pari dell'accordo separato del 2009 che stabiliva appunto il principio delle deroghe ai contratti collettivi nazionali in funzione delle esigenze aziendali, principio poi applicato in grande stile dal modello mussoliniano di relazioni industriali imposto da Marchionne alla FIAT di Pomigliano e Mirafiori e alla Bertone di Grugliasco. A questo proposito non bisogna farsi fuorviare dall'insoddisfazione del nuovo Valletta per l'accordo del 28 giugno, in quanto non prevedendo una clausola di retroattività non lo garantisce del tutto dalle azioni legali intraprese dalla FIOM contro gli accordi-capestro alla FIAT per violazione dei diritti dei lavoratori garantiti dalla Costituzione. Egli ha anche minacciato, con una lettera alla Marcegaglia, di lasciare lo stesso la Confindustria a fine anno se l'accordo non sarà modificato in tal senso. La presidente di Confindustria gli ha risposto che quegli accordi possono rientrare benissimo "nelle nuove norme pattuite". E comunque gli suggerisce che egli può sempre chiedere al governo "un intervento legislativo con effetto retroattivo che non è nella disponibilità di Confindustria". Cosa che il ministro Sacconi ha fatto sapere di avere effettivamente allo studio: una mini-legge ad aziendam che, come quelle per il neoduce Berlusconi, sia tagliata su misura per il nuovo Valletta, estendendo l'efficacia dell'intesa del 28 giugno a tutti gli accordi che, come quelli separati di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, sono "coerenti" con la logica di quella stessa intesa. 6 luglio 2011 |