Licenziamenti più facili Aggirato l'art.18 con l'arbitrato Il Senato cancella il diritto al lavoro e introduce il contratto di lavoro individuale Si tratta di una vera e propria controriforma che mina radicalmente i diritti del lavoro e precarizza ulteriormente i rapporti di lavoro. La sua portata devastante è dello stesso livello della famigerata legge 30/2003 che ha precarizzato tutti i rapporti di lavoro. Siamo di fronte a un sistematico scardinamento del diritto del lavoro. È un disegno eversivo rispetto all'ordinamento della giurisprudenza in materia di lavoro. Più grave dell'attacco del 2002 all'art.18 dello "Statuto dei lavoratori", anch'esso messo in atto dall'allora governo Berlusconi, perché mira a svuotare dall'interno l'impianto normativo di tutela, liquida la "giusta causa" nei licenziamenti, rende non più impugnabili le deroghe a leggi e contratti collettivi, impone nei fatti l'arbitrato, aprendo una voragine che porta diritto al contratto individuale. Stiamo parlando del disegno di legge n.1167-B approvato in modo definitivo (144 sì, 106 no e 3 astenuti), alla chetichella, in mezzo al silenzio assordante delle "opposizioni parlamentari" e degli stessi sindacati confederali, specie Cisl, Uil. Un disegno di legge voluto fortemente dal governo del neoduce Berlusconi, tramite i suoi ministri Sacconi, Brunetta e Tremonti, proposto come collegato alla legge finanziaria del 2009 e riproposto in quella del 2010. Composto da 50 articoli, porta il titolo: "Deleghe al governo in materia di lavori usuranti, riorganizzazione di enti, congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, servizi per l'impiego, incentivi per l'occupazione femminile, lavoro sommerso, lavoro pubblico, controversie di lavoro". Una vera controriforma Tanti argomenti mischiati tra loro, in modo truffaldino e ingannatorio, per nascondere lo scopo e l'obiettivo controriformatore principali che si ritrovano nell'art. 30 che detta le "clausole per la certificazione dei contratti di lavoro" e ancor di più nell'art. 31 che sancisce le "disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato". Si trova in questi due articoli una radicale "riforma" del diritto al lavoro di stampo iperliberista da un lato, e neocorporativo dall'altro, che permette ai padroni di aggirare l'art.18, attraverso l'arbitrato che, di fatto, diventa obbligatorio, e di licenziare con un semplice rimborso economico, evitando in questo modo il reintegro della lavoratrice o del lavoratore ingiustamente licenziati. Più nel dettaglio. La legge offre la possibilità (leggi obbligo), per le prossime cause di lavoro, di ricorrere a un arbitro invece che al giudice naturale, come è stato finora, in due modi: il primo attraverso i contratti collettivi sottoscritti da sindacati e imprenditori. Le parti, precisa la nuova norma, hanno un solo anno per accordarsi sui limiti entro cui l'arbitrato può essere utilizzato. Scaduto il tempo sarà il ministro a intervenire per decreto. L'altro modo è assai peggiore. Il datore di lavoro potrà utilizzare, al momento dell'assunzione, un contratto individuale in cui si stabilisce che eventuali contenziosi verranno risolti da un arbitro e non dal magistrato. È facile immaginare come andrà a finire: il giovane in cerca di occupazione firmerà la clausola sotto ricatto, pur di ottenere il lavoro. E non è tutto. In questo caso, il contratto di lavoro preparato dal padrone potrà prevedere in deroga norme diverse e peggiori da quelle contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, purché ottenga la certificazione di un ente bilaterale, costituito da imprenditori e sindacati. Ma di porcherie in questa legge se ne trovano tante. Ad esempio la tempistica per ricorrere al giudice del lavoro: attualmente in caso di licenziamento, il lavoratore aveva 60 giorni per contestarlo con una raccomandata e poi 5 anni di tempo per organizzare la sua difesa, depositare i motivi, ecc. Con la nuova norma invece se il ricorso lo presenti dopo 180 giorni dall'invio della raccomandata il processo viene automaticamente annullato. Anche il risarcimento monetario che poteva comprendere un numero di mensilità che copriva tutto il periodo intercorso tra il licenziamento e la sentenza ora viene rigidamente limitato tra le 2,5 e le 12 mensilità. Che dire poi della odiosa gabella introdotta nella Finanziaria che impone un esborso fino a 500 euro al lavoratore che per vedere riconosciuti i suoi diritti intende ricorrere alla Corte di cassazione? L'appello dei giuslavoristi Per denunciare tutta la gravità di questo disegno di legge 106 giuslavoristi (professori, avvocati o giudici del lavoro) avevano lanciato l'appello: "Fermiamo la controriforma del diritto al lavoro". "Che nel caso fosse approvata, avvertivano, comporterebbe un passo indietro di cento anni. Un ritorno ai probiviri, un modo per fare tabula rasa dei diritti e delle situazioni giuridiche soggettive di un secolo". Il disegno di legge - è scritto nell'appello - introduce modifiche che vanno al di là della disciplina meramente processuale "mirando a destrutturare la stessa effettività dei diritti dei lavoratori"; anche se non interviene direttamente sull'articolo 18 della legge 300 finisce per "svuotare dall'interno l'impianto normativo di tutela dei lavoratori". Punto cardine di questa controriforma, denunciano i firmatari dell'appello, è "la devoluzione all'arbitrato delle controversie insorte in relazione ai contratti di lavoro certificati dalle apposite commissioni, così sottraendo, in una molteplicità di casi, la tutela dei diritti dei lavoratori alla giurisdizione ordinaria". Gli arbitri decideranno secondo "equità" (sic!) ovvero a loro discrezione, senza il doveroso rispetto di leggi e contratti collettivi. Inoltre, la clausola compromissoria potrà "essere inserita all'atto della stipulazione del contratto individuale di lavoro", momento in cui il padrone può fare pesare sul lavoratore il ricatto occupazionale. Impressiona e indigna come una controriforma di questa portata con effetti catastrofici per le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, per i diritti sindacali e per i diritti democratici (sia pure di tipo borghese) abbia potuto arrivare in porto senza una adeguata reazione da parte dei sindacati, senza una mobilitazione di piazza, come avvenne nel 2002 al Circo Massimo. Perfino Cofferati (ex segretario della Cgil e oggi europarlamentare PD) si è detto "molto sorpreso del silenzio che ha accompagnato l'iter di questa legge". E riferendosi ai sindacati ha aggiunto che: "Non dovevano attendere il voto del Parlamento, ma muoversi prima". Le reazioni dei sindacati Solo la Cgil ha tentato di portare avanti una denuncia ma in modo insufficiente e senza effetti pratici. "Questo Ddl - ha detto di recente il segretario generale, Guglielmo Epifani - opera una vera e propria controriforma delle basi del diritto al lavoro italiano". Esso "porta sostanzialmente a una forma di arbitrato obbligatorio che farebbe saltare le forme tradizionali delle tutele contrattuali e delle libertà dei lavoratori di poter adire a queste scelte. In questo modo - ha aggiunto - naturalmente si rende il lavoratore più debole. Se lo si fa addirittura nel momento del suo ingresso nel lavoro lo si segna per tutta la vita". Ci sono sospetti di anticostituzionalità, la Cgil intende ricorrere alla Corte Costituzionale. Ma per quanto riguarda la mobilitazione dei lavoratori resta muta. La questione non è nemmeno al centro dello sciopero generale del 12 marzo. La reazione di Cisl e Uil è di sostanziale acquiescenza. Infatti le dichiarazioni di Raffaele Bonanni e di Luigi Angeletti si limitano a "criticare" il metodo, ossia la mancata concertazione, non il merito del provvedimento di legge che evidentemente condividono. "L'unica cosa da fare - ha detto il segretario Cisl - è che queste materie siano affidate alle parti sociali... Sono d'accordo solo se le parti sociali possono regolarsi sulle questioni sociali". "Ogni volta che il Parlamento ha cercato di surrogare le parti sociali - ha detto il segretario Uil - ha fatto danni. Negli anni scorsi c'era l'intenzione di abrogare l'art. 18, oggi si cerca di trasformare il reintegro in un rimborso, in una penale da dare ai lavoratori. È diverso". Ma non meno grave avrebbe dovuto aggiungere il filogovernativo Angeletti. Non stupisce l'atteggiamento complice dei vertici Cisl e Uil, visto che sono gli stessi che nel gennaio 2009 hanno firmato, senza e contro la Cgil, il nuovo modello contrattuale padronale e corporativo, visto che sono gli stessi che nel 2002, siglarono insieme al primo governo Berlusconi e alla Confindustria, anche allora senza e contro la Cgil, il "patto per l'Italia" redatto sulla base del "libro bianco" di Marco Biagi fatto proprio dall'allora ministro del welfare il leghista Roberto Maroni e dal suo vice il berlusconiano Maurizio Sacconi. Già a quel tempo l'attacco diretto all'art. 18, che insieme perseguiva la "riforma" del diritto del lavoro con al centro l'ampliamento spropositato dei poteri dell'arbitrato e degli enti bilaterali, è uno obiettivo del governo. Già a quel tempo si voleva aggirare la tutela della "giusta causa" contenuta nello "Statuto dei lavoratori" per concedere libertà di licenziamento ai padroni che così acquisiscono un enorme potere indiscriminato e ricattatorio che mina alle fondamenta l'intero impianto delle tutele sindacali sancite nella legge 300, nei contratti nazionali e nella stessa legislazione del lavoro. Anche nel "libro bianco" di Sacconi, diventato ministro del welfare nell'attuale governo, approvato dal consiglio dei ministri nel maggio 2009, c'era l'intenzione di manomettere il diritto al lavoro, per aggirare l'art. 18 e rendere facili i licenziamenti, insieme all'obiettivo di cancellare l'insieme dello "Statuto dei lavoratori" per sostituirlo con lo "Statuto dei lavori", una sorta di carta del lavoro di mussoliniana memoria, insieme a una modifica dei sindacati e delle relazioni sindacali in senso cogestionario e corporativo. Tutto ciò non può non ricevere una risposta di lotta forte e generalizzata dai lavoratori, dai pensionati, dai democratici, dalle masse popolari. Tutte le azioni di contrasto vanno bene e vanno messe in campo, ivi compreso il ricorso alla Corte costituzionale, e la richiesta di un referendum potrebbe essere un'iniziativa valida. Ma la lotta di piazza deve rimanere lo strumento principale di pressione sul governo. Lo sciopero del 12 marzo indetto dalla Cgil nonostante i suoi limiti può essere un punto di partenza per costruire un largo fronte di forze capace di proseguire nel tempo fino alla vittoria. 10 marzo 2010 |