Era in corso lo scontro Lo Piccolo-Rotolo per la successione di Provenzano Arrestato il nuovo vertice della mafia Dopo Totò Riina, in carcere dal 1993, e Bernardo Provenzano, arrestato l'11 aprile scorso dopo 40 anni di latitanza, nella notte del 20 giugno scorso sono finiti in manette anche i pregiudicati Nino Rotolo, boss di Pagliarelli, l'analista Antonino Cinà, ex medico di Provenzano e di Totò Riina, e il costruttore mafioso dell'Uditore Franco Bonura considerati dagli inquirenti i nuovi vertici di "cosa nostra". Insieme ai "commissari straordinari" della mafia, sono finiti in carcere altri 43 mafiosi tutti pluripregiudicati, mentre altri 6 risultano tutt'ora latitanti. Per tutti il reato contestato è di associazione per delinquere di stampo mafioso pluriaggravata in riferimento a una impressionante serie di omicidi e estorsioni a danno di imprese commerciali ed industriali siciliane. "Gli arrestati - ha spiegato il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso - sono reggenti di 13 famiglie mafiose e di sei mandamenti. La caratteristica particolare è che questi capimafia arrestati sono stati in passato quasi tutti condannati per mafia ed hanno già scontato la pena. Una volta pagato il loro debito con la giustizia, sono ritornati a delinquere prendendo in mano le redini delle cosche". L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone e dai pm Maurizio De Lucia, Michele Prestipino, Roberta Buzzolani, Nino Di Matteo e Domenico Gozzo, si basa in gran parte su intercettazioni ambientali effettuate dagli uomini della Dda (Direzione distrettuale antimafia) che per due anni hanno filmato e intercettato i summit dei capimafia che si svolgevano in un box di lamiera alla periferia di Palermo. Importante ai fini delle indagini è stata la decriptazione dei "pizzini" di Provenzano che hanno permesso di scoprire l'identità di alcuni fiancheggiatori i cui nomi erano cifrati. Tra i 52 fermi disposti dalla Dda, 16 indagati sono accusati di essere gli attuali capi delle famiglie mafiose di Palermo, mentre i tre super boss Rotolo, Cinà e Bonura sono considerati in posizione "sovraordinata" rispetto agli altri e formavano una sorta di "direttorio ristretto di cosa nostra". Antonino Rotolo, 60 anni, infatti è indicato a capo del mandamento mafioso di Pagliarelli e partecipava ai summit nonostante fosse agli arresti domiciliari. Indicato col numero 25 nei codici di Provenzano, Rotolo, da anni agli arresti domiciliari per motivi di salute, era riuscito a ottenere il beneficio grazie a una serie di trucchi: era infatti capace di saltare disinvoltamente - senza sapere di essere filmato dalla polizia - un muro di cinta per raggiungere il box dove avvenivano i summit mafiosi. Da lì, Rotolo impartiva ordini e addirittura progettava l'eliminazione di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, latitanti, capi della cosca di Tommaso Natale e ritenuti i capi attuali della mafia a Palermo. Del direttorio fa parte anche il dottore dei capi mafia Antonino Cinà, 61 anni, più volte condannato e più volte finito in carcere, tra il '93 e il 1999, è poi tornato in libertà nel 2003. Una sentenza passata in giudicato aveva escluso che avesse fatto da capo o da reggente del mandamento di San Lorenzo: ora Cinà, indicato col numero 164 nei pizzini di Provenzano, dimostra nei dialoghi intercettati il proprio livello, al punto da essere stato coinvolto - pure lui - nel progetto di complotto, comunque poi rientrato, contro i Lo Piccolo. Il terzo boss a sovrintendere sugli altri 16 risulta essere Francesco Bonura, di 64 anni, indicato come il capomafia di Uditore. Negli anni '80 fu arrestato subito dopo un omicidio: secondo la polizia stava scappando dopo avere appoggiato i killer, ma rimase imbottigliato nel traffico e fu catturato. Al processo però mancarono i riscontri e Bonura fu scagionato dal delitto, anche se fu condannato per associazione mafiosa. Gli inquirenti hanno anche ricostruito il nuovo organigramma della mafia. Sono 16, secondo la Dda i capimafia individuati dall'inchiesta e tutti già arrestati. A capo della famiglia di Corso Calatafimi c'era Filippo Annatelli; a Rocca Mezzo Monreale, Pietro Badagliacca; a San Lorenzo, Girolamo Biondino; Torretta, Vincenzo Brusca e Calogero Caruso; Borgo Molara, Giuseppe Cappello; Partanna Mondello, Salvatore Davì; Carini, Vincenzo Pipitone e Antonino Di Maggio; Acquasanta, Antonino Pipitone e Vincenzo Di Maio; Porta Nuova, Salvatore Gioeli; Altarello, Rosario Inzerillo; Pagliarelli, Michele Oliveri; Palermo Centro, Salvatore Pispicia; Uditore, Gaetano Sansone. Inoltre gli investigatori hanno identificato coloro che, di fatto, hanno svolto e in alcuni casi svolgono, un ruolo direttivo: per il mandamento di Boccadifalco Vincenzo e Giovanni Marcianò; alla Noce, Pietro Di Napoli; a Brancaccio, Giuseppe Savoca; a Porta Nuova, Nicolò Ingarao. "Senza l'apporto di collaboratori di giustizia - spiega il questore di Palermo Giuseppe Caruso - la Squadra mobile è riuscita ad inquadrare i nuovi assetti di Cosa nostra. Abbiamo ricostruito una situazione aggiornata delle strutture di mafia, dei suoi equilibri interni e delle risorse economiche alle quali sono interessati i componenti di vertice dei vari mandamenti smantellati". Il procuratore Grasso ha aggiunto che "La mafia è in ginocchio. Siamo arrivati ad acquisire un numero impressionante di conversazioni ambientali che per il livello degli interlocutori e per i tipi di argomenti che sono stati trattati hanno consentito di tracciare un attuale organigramma dell'associazione mafiosa palermitana. Inoltre, siamo riusciti a rintracciare anche i rapporti tra le sue diverse articolazioni e i loro esponenti di vertice, dimostrando un divenire assai complesso ed estremamente fluido di alleanze, di contrasti e di contrapposizioni". Nelle pieghe dell'inchiesta ci sono ancora molti inquietanti intrecci da chiarire e mai interrotti fra mafia e politica che la nuova cupola di "cosa nostra" continuava a coltivare anche dopo l'arresto di Provenzano portandole a un livello ancora più alto. Dalle intercettazioni infatti emerge chiara e inequivocabile la totale simbiosi fra i partiti parlamentari e i boss che, rispetto al passato, non si accontentano più di appoggiare elettoralmente il candidato di turno che gli permette più aiuto e impunità, ma propongono essi stessi l'inserimento in lista dei candidati loro affiliati. "Rotolo, Bonura e Cinà avevano rapporti con esponenti del mondo politico", scrivono infatti i Pm nel provvedimento di arresto: "La strategia di Cosa nostra era volta non solo ad appoggiare nelle competizioni elettorali candidati ritenuti di assoluta fiducia ma ad ottenere anche l'inserimento nelle liste dei candidati di persone ancora più affidabili perché legati agli stessi uomini d'onore da vincoli di parentela o da rapporti ritenuti di uguale valore". Insomma i boss avevano scelto i loro candidati da inserire nelle liste elettorali di due partiti che fanno parte della Cdl, FI o Udc, a secondo delle garazie offerte, che correranno per le elezioni amministrative di Palermo del prossimo anno. E Cinà, secondo gli inquirenti, curava la linea politica di "cosa nostra" e trattatava coi boss politici colloquiando con il presidente della Provincia, Francesco Musotto, col deputato azzurro Pippo Fallica e il parlamentare regionale forzista Giovanni Mercadante, nipote del boss di Prizzi Masino Cannella, a cui Cinà si sarebbe rivolto direttamente per trattare le candidature alle amministrative e in particolare l'inserimento in lista di Marcello Parisi, ora in galera arrestato insieme al padre Angelo Rosario durante la maxiretata. Sintomatico in tal senso è il fatto che la retata sia avvenuta proprio alla vigilia dell'inizio di una nuova "guerra di mafia" i cui segnali sono stati registrati, a più riprese, nel corso delle indagini. Una delle principali ragioni di frizione all'interno della organizzazione mafiosa è risultata essere il rientro in Italia di alcuni esponenti della famiglia Inzerillo, decimata dai corleonesi nel corso dei conflitti armati interni alla mafia negli anni '80 ed esiliata negli Usa. Il ritorno degli Inzerillo era stato "caldeggiato" alla commissione mafiosa da Salvatore Lo Piccolo, boss latitante di San Lorenzo. A questa proposta si erano opposti Cinà e Rotolo, che temevano la ripresa di vecchi rancori e contrasti legati a ipotesi di vendetta. Per questo motivo era in corso di elaborazione un piano per l'uccisione di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, entrambi latitanti, e per eliminarli era stata chiesta a Provenzano l'autorizzazione, e per ottenerla avrebbero insinuato sospetti sull'affidabilità dei Lo Piccolo e sulle reali intenzioni degli Inzerillo. Tutto ciò emerge anche dalle lettere trovate a Provenzano, dalle quali sembrerebbe che in qualche modo le tensioni interne all'organizzazione si siano poi raffreddate e il piano di morte infine sarebbe stato accantonato. 26 luglio 2006 |