Volontà di guerra dichiarata dal ministro degli Esteri a “Repubblica”
Gentiloni: “Dobbiamo colpire lo Stato islamico”
Subito dopo gli attentati di Parigi i tamburi interventisti e guerrafondai del governo Renzi hanno ripreso a rullare più forte che mai. In un'intervista a “La Repubblica” del 11 gennaio, prima di volare nella capitale francese per partecipare con Renzi alla “marcia dei premier”, il ministro degli Esteri Gentiloni ha voluto alzare di un altro gradino il tiro della politica militarista e interventista del governo, mettendo all'ordine del giorno, come un passo necessario e urgente, un intervento militare “in loco” delle forze armate italiane contro lo Stato islamico.
Partendo dalla premessa che “nell'area del Medio Oriente per la prima volta si è insediato un gruppo terroristico che non ha precedenti in quanto a capacità militare, economica, organizzativa e direi soprattutto propagandistica”, e che “quello che è accaduto in Francia è la spia di questa minaccia nuova”, il ministro ne ha estratto il seguente teorema per giustificare il nuovo passo interventista: “Illudersi che questa minaccia possa essere fronteggiata senza intervenire, astenendosi, credendo di poterci rinchiudere nelle nostre frontiere è un'idea pericolosa”.
Il problema è sempre quello di aggirare l'articolo 11 della Costituzione, che vieta formalmente le guerre che non siano di sola difesa entro i confini nazionali, per cui l'imperialismo italiano e i suoi governi devono inventarsi ogni volta dei pretesti legali per intervenire nei vari scacchieri militari, generalmente sotto la copertura delle “missioni umanitarie” e delle “missioni di pace”. Ma in questo caso non ci si prende neanche questo disturbo, e il governo Renzi ritiene più che sufficiente giustificare questo intervento di guerra espansionista e neocolonialista come un prolungamento nel Medio Oriente delle operazioni “antiterrorismo” condotte in Italia e in Europa.
E difatti, alla domanda dell'intervistatore su che cosa occorra allora fare, il ministro spiega senza mezzi termini: “Noi dobbiamo colpire, sradicare, estirpare la minaccia nel luogo in cui è più radicata, quello del Daesh (la sigla in arabo dello Stato islamico, ndr): in luglio/agosto la minaccia era incomparabilmente maggiore di quanto non sia adesso sul terreno in Iraq. Ma le onde di ritorno, i movimenti di vari combattenti colpiscono in Europa e proseguiranno a colpire, a prescindere dal fatto che a Kobane o altrove ci possano essere delle vittorie militari per la coalizione a cui partecipiamo. Quella minaccia va estirpata, fronteggiando anche le altre che provengono da Al Qaeda, da Boko Haram e dagli altri focolai di terrorismo”.
All'osservazione del giornalista che questa sembra una vera e propria “chiamata alle armi”, l'ex radicale pacifista non solo non cerca di smussare, ma alza ancor più il tono bellicoso delle sue parole, e sentenzia: “Il non-intervento è illusorio e pericoloso, così come sarebbe ancora più pericoloso pensare che il tema non riguardi noi, ma che ci sia qualcun altro che lo faccia per noi. L'idea che 'vabbè, ci sono gli americani, ci pensano loro', e poi magari ci prendiamo il lusso di dire che sono cattivi... non è più così. Tant'è che per battere il Daesh c'è una coalizione di 60 paesi. E per questo il governo chiede unità al parlamento non solo per rafforzare e riorganizzare il dispositivo che contrasta il terrorismo all'interno del Paese, ma per combatterlo fuori”.
D'ora in avanti, quindi, anche l'Italia adotterà la politica imperialista della guerra globale al “terrorismo”, già praticata dagli Usa, dalla Gran Bretagna e dalla Francia, intervenendo come fanno loro dovunque siano in gioco i loro interessi e la loro “sicurezza”: “Una linea isolazionista nuoce al Paese in termini di sicurezza, di economia, di tenuta dell'Italia stessa”, insiste infatti il titolare della Farnesina, che dopo il parlamento chiama anche “la nostra classe dirigente, politica, giornalistica, economica” a prendere atto che “qui siamo di fronte a uno scontro frontale, anche militare. Non conta la parola, contano i fatti”. Chiama insomma, alla maniera di Mussolini, tutta la “nazione” ad essere unita dietro le truppe italiane contro lo Stato islamico, nell'imminenza di questa nuova avventura interventista dell'imperialismo italiano in Siria e in Iraq e delle altre che potranno essere decise in futuro.
In tutta evidenza l'ex militante di Democrazia proletaria, MLS, PdUP, oggi PD, Paolo Gentiloni, ha calzato decisamente l'elmetto interventista, come dimostra anche la precedente intervista di dicembre - sempre al compiacente giornale filorenziano di De Benedetti e Scalfari – in cui annunciava l'intenzione del governo di effettuare un intervento militare in Libia, naturalmente con la solita formula della “missione di pacificazione”, non appena avesse ottenuto il via libera dall'Onu.
Intenzione confermata anche da Renzi il 9 gennaio, approfittando del clima guerrafondaio rinfocolato dopo gli attentati di Parigi: “L'inviato delle Nazioni Unite sta tentando quello che credo sia l'ultima carta, e cioè recuperare il parlamento di Tripoli e quello di Tobruk”, ha detto infatti il premier a “Otto e mezzo” su La7. Ma se il tentativo non riuscirà “l'Italia è pronta a un protagonismo innanzitutto diplomatico e poi anche di peacekeeping” sul terreno, ha aggiunto il nuovo Berlusconi sottolineando che la Libia è “una priorità” e “non può essere lasciata nelle condizioni in cui è”.
21 gennaio 2015