Confindustria e Cisl soddisfatti, la Cgil lascia correre
I decreti attuativi del Jobs act favoriscono le imprese, non i lavoratori né i giovani
Permangono le tipologie contrattuali precarie. Incrementati i voucher. Liberalizzato il contratto a termine. Apprendistato a 15 anni in azienda. Il demansionamento peggiora le condizioni salariali e professionali dei lavoratori. Meno sicurezza dei lavoratori edili con l'abolizione del tesserino di riconoscimento nei cantieri, multe anziché sospensione dell'attività alle aziende che utilizzano lavoro nero . Dimezzata la cassa integrazione, ridotta del 10% l'aliquota a carico delle aziende. Eliminati la cig in deroga e la mobilità dal 1° gennaio 2017
I padroni liberi di spiare

la controriforma del mercato del lavoro, nota come Jobs Act, ha stravolto completamente le norme del diritto borghesi del lavoro. Esse, pur rimanendo sempre nel quadro dell'economia capitalistica, erano il frutto di una evoluzione che dagli inizi del '900, a parte la parentesi del ventennio fascista, aveva visto i diritti e le tutele dei lavoratori espandersi e garantire loro una certa dignità, strumenti legali per la propria difesa, per la salvaguardia del posto di lavoro, per poter contenere quantomeno i soprusi più macroscopici perpetrati dai padroni. Dopo la seconda guerra mondiale e negli anni 68-70 si ebbero i maggiori avanzamenti in questo senso, grazie anzitutto alle lotte, dure e a volte sanguinose, del movimento operaio del nostro Paese, favoriti anche dal contesto politico, sociale ed economico di quegli anni.

Relazioni industriali e sindacali di tipo mussoliniano
Il Jobs Act invece instaura relazioni industriali e sindacali di tipo mussoliniano, facendo compiere un salto di qualità in negativo alla fase iniziata 30 anni fa. E' nella natura stessa del capitale cercare sempre maggiori profitti a scapito del lavoro ma è dagli anni '80 del secolo scorso che si sono intensificati gli attacchi ai diritti dei lavoratori e sono iniziati a dilagare la flessibilità, il precariato, le privatizzazioni, i tagli alla spesa sociale. Indubbiamente però il Jobs Act rappresenta un tratto importante di questo cammino e a percorrerlo è stato il governo del nuovo duce Renzi, che ha lavorato, e sta lavorando, a favore del padronato in maniera così spudorata da far impallidire i governi guidati dal neoduce Berlusconi. Un ulteriore riprova di come i partiti che in qualche modo hanno la loro origine nel movimento operaio e nelle classi sfruttate, quando passano armi e bagagli dalla parte della borghesia, superano gli originali e i loro leader si trasformano nei peggiori aguzzini dei lavoratori e delle masse popolari (Craxi e Renzi gli esempi più eclatanti).
I decreti attuativi del Jobs Act stanno li a dimostrare che gli allarmi lanciati dagli oppositori di questa controriforma di stampo fascista, e tra questi vi rientra a pieno titolo il PMLI, non erano assolutamente esagerati e addirittura all'atto pratico il governo sta andando oltre le peggiori previsioni. Ricordiamo che il Jobs Act fu approvato prima della fine dell'anno attraverso una legge delega, ovvero si dava carta bianca al governo che successivamente avrebbe messo a punto definitivamente i provvedimenti che sarebbero diventati legge demolendo sistematicamente lo Statuto dei lavoratori. Adesso Renzi presenta il conto ed è salatissimo.
Come avevamo già denunciato, l'avvento del Jobs Act non significa solamente cancellazione dell'articolo 18, cosa di per sé già gravissima. Dal momento che il nuovo assunto per i primi tre anni può esser licenziato in qualsiasi momento a totale discrezione del datore di lavoro, pena un misero risarcimento, appare subito evidente che crolla tutto l'impianto delle tutele contenute nello Statuto dei lavoratori perché il lavoratore avrà sul collo il ricatto della disoccupazione che farà da freno quando sarà il momento di far valere i propri diritti. La controriforma però non lascia nulla al caso e con l'insieme dei suoi decreti attuativi, al momento dovrebbero essere 8, smantella punto per punto lo Statuto introdotto nel 1970, cancellandolo anche per coloro che saranno assunti definitivamente dopo i tre anni e per chi lavora già da tempo.
Nonostante i lunghi iter legislativi il governo sta tenendo fede ai suoi impegni con i capitalisti italiani e l'Unione Europea, e agli slogan di Renzi che “prosegue come un treno” “avanti con le riforme” neofasciste, e riuscirà quasi sicuramente ad approvare tutti i decreti attuativi prima della pausa estiva di agosto. Districarsi in questa giungla di decreti e capire quali e quando sono diventati effettivamente legge non è semplice. Ricordiamo che i primi due sono stati già approvati nel mese di febbraio e hanno riguardato il contratto a tutele crescenti e i nuovi ammortizzatori sociali. Si tratta nel primo caso della famigerata cancellazione dell'articolo 18, con la libertà di spedire a casa il lavoratore a piacimento del padrone che in cambio dovrà solo versare una piccola penale, regola che adesso vale anche per i licenziamenti collettivi. Per quelli disciplinari si perde la gradualità, ovvero si potrà licenziare anche per futili motivi. L'altra norma ha interessato la Nuova Aspi (Naspi), cioè quella che ha sostituito il vecchio assegno di disoccupazione, adeguata all'attuale frammentazione e precarietà dei rapporti di lavoro.

Cancellato lo Statuto dei lavoratori
Nel mese di giugno sono stati approvati definitivamente altri due decreti attuativi riguardanti misure per la conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro e l'altra riguardo la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni. Il primo riguarda l'estensione del periodo di vita del bambino in cui i genitori possono prendere il congedo parentale che non sarà più solo nei primi 3 anni ma esteso fino a sei per quello retribuito al 30% e da 8 a 12 per quello non retribuito, ma sempre per un massimo complessivo di 6 mesi. Insomma una misura a costo zero che cambia poco la questione.
Di ben altra consistenza l'altro decreto che riguarda le tipologie contrattuali e il demansionamento. La miriadi di contratti precari rimangono, saranno eliminati per il futuro solo i contratti di collaborazione a progetto (i co.co.pro) e il “job sharing”, il lavoro a metà tra due persone che investiva finora solo 300 casi in Italia. Rimangono perciò il contratto a termine che viene praticamente liberalizzato, quello a chiamata, di somministrazione e tutto il resto. Rimangono i voucher, il lavoro occasionale pagato con dei mini assegni, una forma legalizzata di lavoro nero, anzi vengono estesi da 5000 a 7.000 ero annui e a quasi tutti i settori. Per quanto riguarda l'apprendistato questo viene abbassato a 15 anni e varrà come adempimento scolastico. Le tre tipologie di apprendistato prevedono il suo utilizzo fino a 30 anni e una paga che parte dal 60% del contratto di riferimento, mentre le aziende avranno incentivi e agevolazioni.
Un discorso a parte merita il demansionamento. Il Jobs Act prevede che il padrone, vantando presunte riorganizzazioni aziendali, possa togliere a un suo dipendente fino a due qualifiche professionali. In teoria a parità di salario ma nei fatti si perderanno le indennità del lavoro svolto in precedenza. Da considerare che tramite accordo personale si potranno “concordare” anche abbassamenti salariali. Un'ulteriore minaccia, quella della retrocessione di qualifica e di salario, che si va ad aggiungere a quella del licenziamento. Una misura che tornerà utile ai padroni anche per risparmiare sulle indennità di licenziamento. A questi due decreti manca solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dopo di ché saranno legge.
Infine sono state esaminate in via preliminare altri 4 decreti che avranno bisogno del vaglio delle commissioni parlamentari (che non cambieranno certamente la sostanza del testo) su cui torneremo sopra anche successivamente ma che già da adesso offrono un quadro ben preciso sulla gravità dell'attacco portato ai lavoratori. Una di queste sono le disposizioni dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale dove si tratta della riorganizzazione dell'“Ispettorato”, che integra i servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’INAIL.
Un altro decreto riguarda gli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro ovvero la cassa integrazione (cig). Come già annunciato dal 2017 sarà eliminata la cig in deroga che taglia sostegno economico a migliaia di lavoratori, specie delle piccole aziende, e la mobilità che, seppur anticamera del licenziamento, dava la possibilità di respirare per un po' a chi subiva tagli, ristrutturazioni, chiusure d'azienda. La cig ordinaria e straordinaria rimangono ma il periodo massimo non sarà più di 48 mesi in 5 anni lavorativi, bensì sarà dimezzata e ridotta a 24 mesi. Seguendo sempre il criterio di colpire i lavoratori e favorire i padroni quest'ultimi si vedranno ridotta del 10% l'aliquota spettante all'azienda.
Il decreto che tratta la materia di servizi per il lavoro e le politiche attive prefigura un ente apposito (Anpal) che comprende anche le Agenzie private. Viene istituita la figura del disoccupato “parziale” e a “rischio disoccupazione”, cioè chi percepisce redditi molto bassi o svolge lavori a intermittenza. Si precisa che la Naspi e altri sostegni al reddito e a chi ha perso il lavoro saranno rigidamente connessi all'accettazione di “corsi di formazione” e di qualsiasi tipo di lavoro, pena la loro revoca immediata, non si chiarisce bene se vi rientrano anche chi percepisce la cig. Un modello simile a quello tedesco più sanzionatorio che di sostegno, un sistema che in Germania non ha fatto altro che produrre un esercito di manodopera adattabile a fare i lavori più duri e meno retribuiti.
Per concludere le disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità dove c'è un po' di tutto. Da segnalare un paio di novità che favoriranno il lavoro nero in edilizia, settore dove se ne trova in abbondanza. Sarà eliminato l'obbligo dei cartellini di riconoscimento individuale con foto sui cantieri mentre le aziende che utilizzeranno lavoro nero non saranno più sospese dall'attività ma avranno la possibilità di mettersi in regola pagando solo una multa. Qui si trova anche il capitolo che prevede il controllo a distanza del lavoratore, provvedimento che ha riempito più di tutti le pagine dei giornali.

Per i padroni libertà di spiare
Con il Jobs Act viene cancellato l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che vieta esplicitamente l'utilizzo di qualsiasi mezzo per il controllo dei dipendenti. Quando si usavano questi mezzi per motivi di sicurezza o altro lo si poteva fare solo tramite accordo sindacale. Non è che i padroni fino a ora non spiassero, ma non potevano usare quel materiale contro il lavoratore. Adesso invece tutto potrà essere monitorato, anche attraverso telefoni cellulari, PC e quant'altro e usato per demansionare o licenziare, basta che s'informi il singolo lavoratore. Una violazione dei diritti e una schedatura personale, ma la privacy esiste solo per le banche, gli evasori e i grandi capitalisti.
Questo, seppure in sintesi, è il nuovo quadro normativo disegnato dal Jobs Act. Provvedimenti che non hanno nessuna connessione con lo sviluppo dell'occupazione e non favoriscono certo i lavoratori, tanto meno quelli più giovani che invece vengono vessati e umiliati in ogni modo. Invece si favoriscono le imprese che, non dimentichiamoci, oltre a tutti i vantaggi offerti da questa controriforma, usufruiscono anche della defiscalizzazione che gli permette di risparmiare su ogni lavoratore assunto con le nuove regole più di 8 mila euro l'anno. Loro sì hanno beneficiato della riduzione del “cuneo fiscale” mentre i lavoratori, e solo una parte, hanno avuto la mancia di 80 euro. Non a caso il feeling tra il capo del governo Renzi e quello di Confindustria Squinzi è perfino maggiore di quello che fu tra Berlusconi e la Marcegaglia.
Per non parlare poi dello stretto rapporto tra il nuovo duce Renzi e il nuovo Valletta Marchionne. Tra i due non c'è solo simpatia personale, ma entrambi perseguono gli stessi obiettivi. Fu proprio la Fiat a fare da apripista alla cancellazione del contratto nazionale e a introdurre quello che appunto viene chiamato “modello Pomigliano” che il Jobs Act ha raccolto per estenderlo a tutti i lavoratori. Entrambi prevedono di mettere a tacere il sindacato, che può esistere solo se è complice altrimenti viene espulso dalle fabbriche o dalle trattative, lavoratori schiavi assoggettati ai voleri e agli interessi dell'azienda e senza alcuna voce in capitolo, manodopera spremuta e pagata con salari infimi e legati alla produttività, schedatura e spionaggio dei dipendenti, quello che noi definiamo sinteticamente relazioni industriali e sindacali di stampo mussoliniano.
Non c'è quindi da stupirsi se gli industriali sono soddisfatti, lo stesso vale per l'indecoroso atteggiamento della Cisl che si associa ai padroni, La Uil storce solo un po la bocca mentre la Cgil lascia correre ormai rassegnata. Landini sembra aver perso la voce. In poco tempo sono stati persi diritti e conquiste ottenute in decenni di lotte senza che i sindacati, Cgil in primis, mettessero in campo tutta la loro forza, e quella della classe operaia e dei lavoratori, per opporsi all'attacco dei padroni e dei governi. Con il loro atteggiamento complice, o nel migliore dei casi passivo come per la Cgil, i sindacati si rendono responsabili non solo del peggioramento di alcune regole, ma dell'introduzione nelle fabbriche, nelle aziende, nei centri commerciali, negli uffici, di un vero e proprio fascismo, che magari t'intimorisce con i ricatti anziché il manganello, ma la sostanza non cambia.

24 giugno 2015