Importante dichiarazione del leader della Fiom a “La Repubblica”
Landini: “Serve un nuovo sindacato unitario e pluralista”
Il PMLI lo sostiene da 22 anni
In un'intervista a la Repubblica
di fine giugno Maurizio Landini lancia l'allarme e sviluppa alcune riflessioni sulle condizioni in cui versa l'attuale modello sindacale che sta attraversando una profonda crisi di rappresentanza, ricoprendo un ruolo sempre più marginale nello scenario politico e sociale del nostro Paese. Tutto ciò comporta che le istanze dei lavoratori siano sempre meno rappresentate, conseguentemente a un calo degli iscritti, nonostante il proliferare di nuove sigle sindacali.
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Non è sommando semplicemente Cgil, Cisl e Uil che i sindacati usciranno dalla crisi. Serve una riforma profonda delle organizzazioni sindacali perché il mondo del lavoro oggi è frantumato e non ha rappresentanza. E serve più democrazia perché i lavoratori possano eleggere i dirigenti sindacali e votare sugli accordi che li riguardano. Insomma in prospettiva serve un nuovo sindacato unitario e pluralista”. Questo è il succo del pensiero del segretario generale dei metalmeccanici della Fiom, il quale aggiunge che la Coalizione sciale non è in antitesi con il sindacato ma lavora per lo stesso obiettivo.
A parte il discorso sul movimento da lui promosso, che abbiamo trattato in altri articoli, ci sono delle affermazioni almeno in certa misura condivisibili, come quando Landini mette come punto centrale del problema la mancanza di democrazia sindacale. A dire il vero non ha scoperto niente di nuovo. E' almeno dalla fine degli anni '70, dal “sindacato dei Consigli”, fino ai giorni nostri, ad esempio con i comitati autorganizzati della scuola contro la “riforma” di Renzi, che la mancanza di democrazia, lo scollamento e la distanza tra base e vertici sindacali emergono con chiarezza.
Certo per “sindacato unitario” si possono intendere tante cose molto diverse tra loro. C'è l'interpretazione di Renzi, che parla di sindacato “unico”. In questo caso il nuovo duce al governo intende un sindacato corporativo di stampo prettamente fascista, dove i lavoratori sono inquadrati in un unica sigla, mentre sono emarginati ed esclusi anche dalla fabbrica o dall'ufficio tutti coloro che aderiscono a un sindacato che abbia qualsiasi velleità di contrastare industriali e governo, perché l'unico ruolo concesso ai lavoratori è quello di sacrificarsi per la propria borghesia nazionale nel contesto della competizione capitalistica globale. Il “modello Marchionne”, per intenderci.
Poi c'è l'interpretazione di Susanna Camusso. In questi giorni il segretario generale della Cgil ha scritto agli omologhi a quelli di Cisl e Uil per rilanciare l'unità di azione sindacale. Una vecchia strategia (denunciata anche da Landini) che, secondo noi marxisti-leninisti, nella sostanza non fa altro che riproporre la concertazione. Ossia in altre parole invita le segreterie confederali a trovare un accordo su alcuni punti fondamentali come il ruolo dei contratti nazionali, il Mezzogiorno, la crisi economica scaricata sui lavoratori. Tutti temi su cui Cisl e Uil, ma in larga misura anche la Cgil, hanno mostrato sudditanza verso le misure e le politiche portate avanti dal governo, del padronato e dell'Unione europea.
La preoccupazione della Camusso è quella di avere i gruppi dirigenti dei tre sindacati su posizioni comuni in modo da costringere il governo a trattare con loro, ma per riprendere la strada della concertazione, dove a Cgil, Cisl e Uil venga riconosciuto il ruolo di mediatori tra le parti sociali così da portare avanti con maggiore successo la loro politica collaborazionista con quelle che invece dovrebbero essere le loro controparti.
Landini quindi pone delle questioni reali, ma rimane ambiguo. Come PMLI lo abbiamo appoggiato quando era in prima fila con la Fiom nel fronte dell'opposizione alla cancellazione dell'articolo 18 e del contratto nazionale, lasciando in secondo piano le sue convinzioni politiche che sapevamo ben diverse dalle nostre. Lo stesso abbiamo fatto quando ha denunciato un sindacato sempre più burocratico e scollegato dai lavoratori, specie quelli giovani e precari.
Abbiamo però stigmatizzato alcune sue iniziative che contraddicevano le sue denunce. Tra tutte vogliamo ricordare il credito che ha dato a Renzi, per un certo periodo ritenuto un valido interlocutore. L'atteggiamento tenuto all'ultimo congresso della Cgil, quando ha rinunciato a dare battaglia aperta fin dall'inizio alle posizioni della Camusso ricercando fino all'ultimo un accordo di vertice. Oppure il tira e molla della Fiom sull'accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, prima rifiutato, poi sottoscritto, poi rimesso in discussione e alla fine, di fatto, accettato. Accordo che si basa su un modello di sindacato neocorporativo e collaborazionista, il quale prevede che le varie sigle sindacali assicurino preventivamente il rispetto degli accordi firmati a maggioranza anche se sono contrarie, altrimenti non possono essere rappresentate in quella determinata azienda e scattano pure delle sanzioni se qualcuno si permette di scioperare. Né più né meno di quanto accaduto alla Fiom a Pomigliano con il famigerato modello Marchionne, con l'aggravante della limitazione del diritto di sciopero.
Tornando all'intervista, al giornalista che gli chiede se Cgil, Cisl e Uil andrebbero sciolte Landini risponde: “sì … se si vuole davvero aprire la strada verso un processo unitario bisogna coinvolgere i lavoratori, fondare il nuovo soggetto sulla partecipazione dal basso, sulla democrazia”. Ma quale modello di sindacato propone affinché si possa veramente dare spazio alla democrazia e al protagonismo dei lavoratori ad avere una organizzazione capace di fronteggiare governo e padronato? Su questo Landini non dice nulla. La sua proposta appare più che altro una variante di sinistra dell'unità ricercata dalla Camusso. Comunque aver chiesto lo scioglimento dei tre più importanti sindacati è un fatto molto importante. Il PMLI lo sostiene da anni e chiede di creare un unico, grande sindacato delle lavoratrici, dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, che si basi su due pilastri: uno è la democrazia diretta dal basso verso l'alto, l'altro è l'autonomia e il rifiuto della concertazione e della politica dei redditi.
Non crediamo che la soluzione sia quella di creare un nuovo sindacato, una sigla collocata più a sinistra che si andrebbe ad aggiungere a quelle esistenti. La questione dell'unità sindacale non possono risolverla certo i cosiddetti “sindacati di base” (Usb, Cobas, Slai-Cobas, ecc.) con la loro impostazione spontaneista anarchica e settaria, le loro rivendicazioni spesso e volentieri corporative, tendenti più a dividere che unire i lavoratori.
Occorre invece dare vita a un nuovo sindacato che si liberi della soffocante e mastodontica burocrazia sindacale, corrotta e asservita al palazzo, che operi per la difesa degli interessi fondamentali e immediati dei lavoratori, senza vincoli e compatibilità dettate dai capitalisti e dal governo. Un sindacato dove non sia un ristretto gruppo di burocrati istituzionalizzati a dettare le regole e le scelte, ma dove tutto il potere decisionale e sindacale sia nelle mani dell'Assemblea generale dei lavoratori e dei pensionati.
Noi per democrazia sindacale non intendiamo la lotta personale tra i diversi leader, bensì una democrazia di movimento che non ammette deleghe in bianco e senza controllo, che poggia sul protagonismo dei lavoratori nella lotta e nella gestione della vita sindacale nei luoghi di lavoro anzitutto, ma anche al di fuori. Noi la democrazia diretta in campo sindacale la intendiamo come un sistema in cui le lavoratrici e i lavoratori, le pensionate e i pensionati, discutono i problemi, mettono a confronto le idee, assumono le decisioni, approvano le piattaforme e gli accordi con voto palese, selezionano i loro rappresentanti più capaci e combattivi e li revocano non appena essi non riscuotono la fiducia dei lavoratori. Che va ben oltre un semplice sì o un no a un referendum (pur importante) su decisioni già prese.
Ciò comporta il superamento del modello del sindacato degli iscritti, il sindacato associativo promosso da correnti sindacali partitiche borghesi; comporta, allorché le condizioni saranno mature, allorché la maggioranza degli operai e dei lavoratori lo chiederanno, lo scioglimento delle attuali confederazioni Cisl e Uil, oltreché della Cgil e anche dei sindacati “di base”. Occorre azzerare tutti i vecchi sindacati, creare un unico sindacato che preveda l'unità di tutti i lavoratori e dei pensionati a basso reddito di tutte le categorie e dei settori privati e pubblici.
Una strategia, quella del PMLI, che richiede tempi lunghi per essere realizzata. Essa, tra l'altro, è in grado di attrarre al meglio i lavoratori giovani e precari che le tre confederazioni sindacali hanno per lungo tempo quasi del tutto ignorato. Riteniamo comunque importante che da più parti ci si ponga il problema di unire i lavoratori oltre le attuali sigle sindacali, che oramai non rappresentano più i loro interessi ma quelli della controparte padronale e del governo. I marxisti-leninisti sono pronti alla discussione sul tema, auspicando che anche Landini presenti un progetto organico del “sindacato unitario e pluralista”.
1 luglio 2015