Mediamente ogni lavoratore ha perso 8 mila euro
La Consulta obbliga il governo a sbloccare i contratti del pubblico impiego. Graziato per gli stipendi dei sei anni passati
Lottiamo per gli arretrati e il nuovo contratto
Il 24 giugno la Corte costituzionale ha emesso la sentenza sulla illegittimità del blocco dei contratti dei dipendenti pubblici che dura dal 2009, sollevata da alcune organizzazioni sindacali dei lavoratori in quanto il blocco è in contrasto con l'articolo 39 della Costituzione che stabilisce il principio dell'equa retribuzione del lavoratore: per la Consulta il blocco è effettivamente incostituzionale, ma non in quanto tale, bensì perché può essere solo temporaneo. E poiché nel frattempo il parlamento ha riscritto nel 2012 l'articolo 81 secondo i dettami del Fiscal compact
europeo, stabilendo l'obbligo del pareggio di bilancio dei conti pubblici nella Costituzione, le conseguenze della sentenza valgono solo per il futuro, mentre per i 4 anni già trascorsi dalla precedente sentenza che aveva confermato la legittimità del primo blocco, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato
.
Questa in sostanza la decisione “salomonica” presa all'unanimità dai 12 giudici della Consulta, che al tempo stesso obbliga il governo Renzi a sbloccare i contratti degli statali fermi da ben 6 anni e a trovare le risorse necessarie per farlo, ma lo grazia dalla stangata sui conti pubblici che avrebbe comportato pagare anche gli imponenti arretrati accumulatisi dal 2011 ad oggi.
Il primo blocco dei contratti dei dipendenti pubblici fu deciso dal governo Berlusconi nel 2010 (firmato dall'allora ministro della Funzione pubblica Brunetta). Ed è questo primo blocco che la Corte giudicò a suo tempo legittimo, purché fosse “temporaneo”, strettamente mirato ad affrontare una situazione di emergenza. Ma poi tutti i governi successivi hanno fatto orecchie da mercante e l'hanno via via prorogato. Così è successo indifferentemente col governo Monti nel 2012, col governo Letta nel 2014 e col governo Renzi nel 2015.
Le conseguenze di un così abnorme e prolungato blocco dei contratti sono state catastrofiche per i 3,3 milioni di dipendenti pubblici. Anche senza prendere per oro colato la cifra “allarmistica” di 35 miliardi fornita dal ministero del Tesoro, che è servita all'avvocatura dello Stato per mettere i giudici di fronte alla responsabilità di sconvolgere il bilancio pubblico, perché tanto secondo il governo sarebbe costato rimborsare i lavoratori di quanto è stato loro sottratto dal 2011, non c'è dubbio che si tratti comunque di una cifra imponente. Le pur prudenti stime dei sindacati che avevano presentato il ricorso, tra cui Confsal e Flp, parlavano di almeno 12 miliardi. L'Aran, l'agenzia che per conto dello Stato firma i contratti, stima che un lavoratore medio, da 22 mila euro lordi l'anno, abbia perso in questi anni, solo per il mancato adeguamento all'inflazione, 8.000 euro complessivi, e circa 2.200 sullo stipendio annuale. Per una perdita del potere d'acquisto che si aggira tra l'8 e il 10%.
Su queste cifre controverse, comunque, la Corte ha messo una pietra tombale con la sentenza del 24 giugno, e al governo spetterà solo di aprire una trattativa con le organizzazioni sindacali per rinnovare i contratti e pagare eventualmente un'una tantum
per l'indennità di vacanza contrattuale. Si tratterà perciò di cifre scaglionate nel tempo, anche se comunque andranno trovate.
Secondo il Documento di economia e finanza del governo dello scorso aprile (Def), il costo del rinnovo dei contratti si aggirerebbe sugli 1,6 miliardi per il 2016, in 4,1 nel 2017, in 6,6 nel 2018 e in 8,7 miliardi nel 2019, per una media di circa 2 miliardi all'anno. Sempreché, naturalmente, non faccia orecchie da mercante come sulle pensioni e non la tiri per le lunghe rimandando alle calende greche il confronto coi sindacati sui contratti, confronto verso il quale è ben nota l'allergia manifestata dal nuovo duce di Palazzo Chigi.
In ogni caso il governo ha sempre pronta la “clausola di salvaguardia” della Spending review
da 10 miliardi, oppure dell'aumento delle aliquote dell'Iva dal 10 al 13% entro il 2017 e dal 22 al 25,5% entro il 2018, nel caso il rinnovo dovesse comportare lo sforamento dei parametri di bilancio già stabiliti.
Contrariamente alla sentenza sull'incostituzionalità del blocco dell'indicizzazione delle pensioni sopra i 1.200 euro netti, che peraltro Renzi e Padoan hanno tranquillamente ignorato rimborsando solo una minima parte del maltolto, e non a tutti i pensionati ingiustamente penalizzati, stavolta la Consulta ha tenuto conto del nuovo articolo 81 e delle esigenze di bilancio fortemente fatte valere dal governo. All'indomani della sentenza sulle pensioni, infatti, il governo aveva accusato senza mezzi termini la Corte di non aver tenuto in debito conto tali esigenze, con il ministro del Tesoro Padoan, spalleggiato da “insigni” economisti e giuristi di regime, che bacchettava i giudici per “non aver valutato gli effetti finanziari della sentenza”.
Evidentemente le rampogne del governo hanno trovato orecchie sensibili tra i 12 della Consulta, che già sul blocco delle pensioni si erano divisi a metà, con l'ex presidente del Consiglio, nonché super-pensionato d'oro, Giuliano Amato, che capeggiava manco a dirlo la fazione favorevole al giudizio di costituzionalità. Da qui la sentenza di compromesso che pone fine al blocco dei contratti pubblici ma salva il governo dal dover rimborsare il pregresso ai lavoratori penalizzati, con la formula giuridica della “illegittimità costituzionale sopravvenuta”.
In tal modo, però, la Corte ha anche stabilito un pericoloso precedente, giudicando in base al principio non scritto che le esigenze di bilancio hanno la precedenza sui diritti costituzionalmente garantiti; ovvero che, come ha osservato anche il costituzionalista Giacomo Azzariti, l'articolo 81 della Costituzione, stravolto in nome delle politiche liberiste dell'Europa, diventa superiore a tutti gli altri articoli della Carta: “In questa prospettiva – scrive il costituzionalista – si potrebbe giungere a giustificare qualunque riduzione di spesa in ambito sociale: scuola, sanità, assistenza. Tutti i diritti sociali (ma anche i classici diritti di libertà) costano, dunque è possibile tagliare senza limiti qualsiasi diritto pur di giungere a un equilibrio ritenuto (dalle ideologie neoliberiste) sostenibile”.
Ora si tratta di aprire una combattiva lotta per il recupero integrale degli arretrati rubati ai lavoratori e per il nuovo contratto.
8 luglio 2015