L'accordo nel PD sul Senato non cambia la natura piduista e fascista della controriforma
Con l'accordo raggiunto nella Direzione del PD del 21 settembre con la minoranza di Bersani e Cuperlo, Renzi si è spianato la strada verso l'approvazione in tempi rapidi della sua controriforma costituzionale del Senato, attualmente in discussione a Palazzo Madama per la terza delle quattro letture previste dall'articolo 138. Con questo accordo, ottenuto praticamente a costo zero, ha rimosso infatti quello che poteva sembrare il maggior ostacolo sul suo cammino, dato che la trentina di senatori della sinistra PD, se avessero deciso di votare contro il disegno di legge Boschi, avrebbero potuto mettere teoricamente a rischio la risicata maggioranza di cui il suo governo dispone in Senato.
L'altro ostacolo, quello degli 80 milioni di emendamenti presentati dal leghista Calderoli, a cui se ne aggiungono alcune migliaia di SEL e circa un centinaio del Movimento 5 Stelle, non lo impensierisce più di tanto, confidando che il presidente del Senato, Grasso, li giudicherà per la maggior parte inammissibili, come infatti ha già cominciato a fare con quelli di Calderoli, mentre i restanti li farà saltare col sistema del “canguro”, ossia facendo cadere automaticamente tutti gli altri emendamenti collegati in qualche modo a quelli via via respinti in aula.
Anzi, a ben guardare i milioni di emendamenti di Calderoli, elaborati al computer tramite un algoritmo, sembrano stati fatti apposta per dargli una scusa legale per tarpare il dibattito e far rispettare con le buone o con le cattive la data già scelta per l'approvazione, che la conferenza dei capogruppo ha stabilito per il 13 ottobre, prima della discussione della legge di Stabilità che inizia il 15 ottobre. Non a caso la ministra delle Riforme Boschi aveva invocato “soluzioni eccezionali” per rispondere ad un “ostruzionismo straordinario”.
La capitolazione scontata della minoranza PD
L'accordo con la minoranza PD è un altro capolavoro di renziano che solo degli inguaribili parolai e cacasotto come Bersani e Cuperlo avrebbero potuto accettare presentandolo come una “vittoria”. Il fatto è che dopo aver votato già due volte il ddl Boschi così com'è, e avere invocato per qualche settimana delle modifiche a loro dire “decisive”, regolarmente respinte al mittente da Renzi, non sapevano più come uscire dall'angolo in cui si erano cacciati, ed è bastato che questi gli buttasse un osso per farli tornare a cuccia. Anche perché più passava il tempo e più il lavorio sottobanco e in tandem di Lotti e Verdini stava cominciando a dare i suoi frutti: da una parte assottigliando sempre più le file della minoranza e rendendo il suo voto sempre più ininfluente; e dall'altra arricchendo il serbatoio di voti di riserva che l'ex macellaio toscano porta in dote a Renzi, sfilandoli giorno per giorno dal suo ex partito e travasandoli nel suo nuovo gruppo parlamentare. Tanto che il capogruppo di Forza Italia, Romani, si è appellato a Grasso e a Mattarella denunciando che “è in corso un'oscura campagna acquisti. Un'operazione di bassa lega”. E anche il M5S ha annunciato la presentazione di una denuncia per compravendita di parlamentari alla procura di Roma.
Tanto nel successo della campagna acquisti di Verdini per conto di Lotti, quanto nella scontata capitolazione di bersaniani e cuperliani, ha poi pesato non poco la minaccia del premier di chiudere anticipatamente la legislatura se il ddl Boschi non fosse passato, con la conseguente perdita della poltrona parlamentare e della relativa pagnotta per quanti non hanno speranza di essere ricandidati da Berlusconi e da Renzi.
Un pugno di mosche per Bersani & C.
La cosa più ridicola della capitolazione della sinistra PD a Renzi è che questa l'abbia spacciata come un suo successo. Bersani ha detto che “ha vinto il metodo Mattarella” e ora “i voti di Verdini non servono più”. Quanto a Cuperlo, ha chiosato soddisfatto che “si è scelto di ascoltarsi ed è un bene”. Ma cosa hanno ottenuto, in realtà? Per settimane la sinistra PD aveva strepitato per rendere “più democratica” la controriforma del Senato chiedendo l'elezione popolare diretta dei senatori, anziché come stabilisce il ddl la loro nomina tra i consiglieri regionali e i sindaci, riaprendo alla modifica dell'articolo 2 già approvato in doppia lettura conforme, così da non avere un Senato di nominati. Inoltre chiedeva di allargare le competenze della seconda camera, nonché di rivedere il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica e dei giudici della Corte costituzionale, per non dare troppo potere al premier, che grazie anche al premio di lista disposto dall'Italicum si può scegliere senatori, capo dello Stato, Corte costituzionale e Csm.
Cosa hanno ottenuto di tutto ciò? Un pugno di mosche, o poco più. Tanto valgono infatti i tre emendamenti che la Finocchiaro ha inserito nel ddl Boschi a recepimento dell'accordo: il primo, senza modificare l'articolo 2 che Renzi considera assolutamente già chiuso, e che stabilisce l'elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali, aggiunge solo un paragrafo al comma 5 in cui viene detto che ciò avverrà “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge”: in sostanza gli elettori dovrebbero scegliere tra i candidati consiglieri regionali, secondo una legge ordinaria da approvare dopo
la “riforma”, quelli che poi saranno scelti dal Consiglio stesso come futuri senatori. Scelti come? “In conformità” al voto degli elettori. Quindi saranno sempre i consiglieri (nominati dai partiti, dato che le liste le fanno loro) a scegliere i senatori, visto che “in conformità” vuol dire tutto e niente, e comunque di sicuro non vuol dire uguale (al voto degli elettori).
Il secondo emendamento, all'articolo 1, allarga le competenze del nuovo Senato alla “verifica dell'impatto delle politiche della UE sui territori” e alla “valutazione delle politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche amministrazioni”: aria fritta, insomma. Il terzo emendamento riporta da 5 a 2 i giudici costituzionali eletti dal nuovo Senato. Assolutamente nulla, poi, riguardo alle elezioni presidenziali e dei membri del Csm. Come da tutto ciò uno dei bersaniani di punta come Miguel Gotor abbia potuto trarre la certezza che “politicamente abbiamo ottenuto il Senato elettivo”, rimane un mistero. Anche se poi ha cercato di celare malamente la sconfitta sostenendo che “questa è una battaglia che si capirà col tempo”.
Pronto il taxi di Verdini
Chi si contenta gode. Vero è che non fidandosi del tutto di Renzi la minoranza non ha ancora ritirato i suoi emendamenti. Ma è un'arma spuntata, sia perché come deterrente il renziano Marcucci ha depositato un emendamento che chiede l'abolizione secca del Senato se Grasso dovesse riaprire a modifiche dell'articolo 2; sia perché ora Renzi può contare su un buon numero di voti verdiniani (al momento già 12) in caso di bisogno, come si è visto in occasione del voto sul rinvio in commissione del provvedimento, respinto con i voti di PD, NCD e, appunto, il gruppo ALA di Verdini. Con grande disappunto di Bersani, che si è lamentato perché “Verdini e compagnia cercano di entrare nel giardino di casa nostra”. Non per nulla l'ex coordinatore di FI si è autoproclamato “un taxi” per portare da Berlusconi a Renzi chi vuol rimanere vicino al “potere che conta”: “I moderati devono essere moderni, spostarsi da una parte all'altra, senza paura”, è il suo motto.
Comunque una cosa è sicura: se anche la sinistra del PD avesse ottenuto tutto quello che chiedeva (e non l'ha ottenuto neanche per sogno, come abbiamo visto e come del resto ha sottolineato sprezzantemente Renzi subito dopo il voto all'unanimità in Direzione), il carattere piduista e fascista di questa controriforma non sarebbe cambiato di un millimetro. Con o senza elezione popolare diretta dei senatori (che comunque non c'è), il nuovo Senato resta una camera di nominati, con pochi poteri e di ordine secondario. Sparisce il bicameralismo e resta una sola camera a dare la fiducia al governo e a fare le leggi, ma anch'essa con poteri ridotti rispetto all'esecutivo, che può imporre corsie preferenziali e tempi prestabiliti all'approvazione dei suoi provvedimenti.
Tutto ciò cambia la forma di governo da parlamentare a presidenziale di fatto nella forma del premierato, affossando definitivamente la Costituzione borghese del 1948. Così come prescritto nel piano della P2 di Gelli, portato avanti da Craxi e Berlusconi, e che ora sta per realizzarsi con il nuovo duce Renzi.
30 settembre 2015