Renzi all'Onu si gonfia il petto: l'Italia intende guidare la missione contro la Libia
L'Italia è in prima fila nella coalizione imperialista per la guerra al Daesh (il nome arabo dello Stato islamico); e in questo quadro e secondo i propri interessi nazionali, è pronta a guidare una missione militare contro la Libia: è questo in sostanza il messaggio nazionalista e interventista che il nuovo duce Renzi ha lanciato dalla tribuna dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite col suo discorso del 29 settembre.
Un discorso interamente dedicato all'esaltazione del ruolo dell'Italia nella guerra al cosiddetto terrorismo, internazionale ma anche interno all'Europa e al nostro Paese, ribadendo che l'Italia “non si tira indietro” in questa guerra contro la “cultura della violenza e del nichilismo”, e che anche per questo pone la sua candidatura ad avere un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza dell'Onu.
A questo proposito, come aveva già fatto nell'appena concluso summit sulla lotta al terrorismo presieduto da Obama, e in quello precedente sulle operazioni di “peacekeeping” dell'Onu, Renzi si è gonfiato il petto elencando i numerosi fronti interventisti nei quali l'Italia è impegnata con le sue missioni di guerra travestite da operazioni “di pace”: a cominciare da quella in Afghanistan, dichiarandosi “fiero dei nostri militari” e rimarcando di aver acconsentito alla richiesta del leader imperialista Usa di non ritirare ancora le nostre truppe da quel Paese. Ma soprattutto si è vantato appunto di essere in prima fila nella guerra allo Stato islamico, e questo per un motivo ben preciso, quello di arrivare per questa via al punto che gli interessava di più: l'intervento in Libia.
“Un nemico pericoloso sta alle nostre porte: il Daesh, il nemico dell'estremismo e del terrorismo”, ha detto infatti Renzi sfoggiando per l'occasione il suo più consumato tono teatrale. E per combattere questo nemico “l'Italia è il primo paese, con i suoi carabinieri, nell'addestramento delle forze di sicurezza irachene”, così come ha “un ruolo guida”, al fianco di Usa e Arabia saudita, nel gruppo di contrasto ai canali di finanziamento al Daesh. E si è detto pronto anche a creare una task force composta da militari e civili per la protezione e il salvataggio dei siti archeologici e di interesse culturale minacciati dallo Stato islamico.
Ma adesso - ha esclamato il premier arrivando al punto - “il Daesh rischia di affermarsi in Africa, partendo dalla Libia”. Ed è a questo punto, dopo aver preparato sapientemente il terreno, che ha buttato sul tavolo la sua “offerta” pelosa al popolo libico: “I fratelli libici – ha proseguito infatti il nuovo duce – devono sapere che non sono soli. Che l'Assemblea dell'Onu non si è dimenticata di loro. Che l'Italia è pronta a collaborare con un governo di unità nazionale e a riprendere la collaborazione in settori chiave, per ridare alla Libia un futuro. Se il nuovo governo libico ce lo chiederà, l'Italia è pronta ad assumere il ruolo guida in un meccanismo per l'assistenza e la stabilizzazione del Paese, autorizzato dalla comunità internazionale”.
Un'“offerta” che al di là del linguaggio forzatamente diplomatico (trattandosi dell'Assemblea generale dell'Onu non avrebbe potuto fare diversamente), svela chiaramente gli appetiti interventisti dell'imperialismo italiano nei confronti della Libia, tornata ad essere per l'Italia di Renzi una regione di influenza e di espansione ad essa spettante di diritto, se non proprio una vera colonia come lo è stata per l'Italia di Giolitti e di Mussolini. Che cosa può significare, altrimenti, che l'Italia è pronta a riprendere la “collaborazione in settori chiave” con la Libia, se non poter rimettere le mani sul petrolio e sul gas libici a basso prezzo, di cui il capitalismo italiano ha un estremo bisogno per la sua ripresa e per far fronte alla concorrenza internazionale? Risorse su cui aveva diritto di precedenza sotto l'amico Gheddafi, ma dalle quali oggi rischia invece di essere tagliato fuori del tutto, sia a causa dei rivali anglo-francesi, sia della guerra civile e sia, soprattutto e in futuro, da un'eventuale espansione dello Stato islamico in quel Paese.
E che cosa può voler dire che l'Italia è pronta “ad assumere un ruolo guida in un meccanismo per l'assistenza e la stabilizzazione” della Libia, se non guidare una campagna militare per imporre una “pax” e un protettorato italiani alla Libia dilaniata dalla guerra tra fazioni, e per fronteggiare direttamente sul campo l'avanzata dello Stato islamico? D'altra parte, non è proprio questo che ha fatto la Francia del socialista Hollande con gli interventi imperialisti attuati recentemente nelle sue ex colonie africane del Sahel, per salvaguardare il suo sfruttamento a basso prezzo delle ricchezze minerarie di quei paesi minacciato dall'avanzata dei combattenti islamici? Questo è il modello neocolonialista e interventista sposato anche da Renzi.
Il fatto poi che costui si mascheri dietro la richiesta di un “legittimo governo di unità nazionale” e “l'autorizzazione della comunità internazionale”, è solo la normale foglia di fico con la quale si coprono sempre gli interventi imperialisti, e che in sede Onu non avrebbe potuto fare a meno di invocare. Quello che conta e che è grave, però, è che il tema dell'intervento sia stato posto sul tavolo e la candidatura dell'Italia a guidarlo sia stata avanzata, e in un consesso mondiale così elevato. Poi l'occasione, il pretesto e le forme “legali” necessari per attuarlo si troveranno. Almeno questo è quello che il nuovo duce pensa e spera.
Di sicuro il nuovo duce non lascerà nulla di intentato affinché ciò si concretizzi, perché come per il suo maestro Mussolini, quello della Libia, e più in generale del Mediterraneo e dell'Africa, è ormai un suo chiodo fisso: “Per l'Italia la Libia è una priorità”, come lo è anche “l'Africa sub-sahariana”, ha sottolineato infatti al summit contro il terrorismo. E anche nell'intervista del 3 ottobre all'organo ufficioso del PD, la Repubblica
, ha ribadito che “seguiamo la dinamica del Mediterraneo e più in generale dell'Africa, che costituisce sempre più il punto di riferimento della nostra politica estera”.
7 ottobre 2015