Non si vuole la verità sulla trattativa Stato-mafia
Mannino assolto. I pm: appello subito, il procuratore Lo Voi frena
La procura aveva chiesto 9 anni di carcere per l'ex ministro democristiano
Il 4 novembre, dopo due anni di rito abbreviato e un'ora di camera di consiglio, il giudice dell'udienza preliminare (Gup), Marina Petruzzella, ha assolto “per non aver commesso il fatto” l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, accusato dalla procura di Palermo di “violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato” (art. 338 del codice penale), per aver iniziato la trattativa Stato-mafia emersa dalle indagini sulle stragi politico-mafiose del 1992-93, e per il quale reato i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, avevano chiesto la condanna a 9 anni di carcere.
Per quella stessa inchiesta sulla trattativa Stato-mafia si sta celebrando il processo in Corte di assise a Palermo, che vede imputati gli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno, l'ex senatore di Forza Italia Dell'Utri, l'ex ministro dell'Interno Mancino (per falsa testimonianza) e i boss mafiosi Riina, Bagarella e Cinà, oltre al pentito Brusca e a Massimo Ciancimino. Era stato lo stesso Mannino nel marzo 2013 a chiedere il rito abbreviato (che in caso di condanna prevede lo sconto di un terzo della pena), sfilandosi così da quel processo per arrivare a suo dire ad un verdetto veloce, dopo la precedente lunga vicenda giudiziaria in cui era stato condannato e poi assolto in Cassazione sempre per un reato di mafia, ma più verosimilmente per evitare di trovarsi a confronto diretto con gli altri coimputati.
“La sentenza dimostra che i processi non sono i luoghi più adatti per ricostruire la storia d'Italia”, ha commentato uno dei suoi difensori, Nino Caleca. Mentre dal canto suo l'imputato si lasciava andare a dichiarazioni durissime contro i pm palermitani, da lui accusati di perseguitarlo da 25 anni, e in particolare contro Di Matteo, che “nel processo per la strage di via D'Amelio (quella del luglio '92 in cui fu assassinato il giudice Borsellino, ndr) ha fatto condannare persone innocenti”. Giudizi questi condivisi sia dall'establishment politico sia dalla stampa di regime, che hanno gioito più o meno apertamente per una sentenza di assoluzione che a loro dire mina dalle fondamenta il processo sulla trattativa Stato-mafia e ne mette in forse la stessa realtà, riducendola ad un “teorema” che Ingroia, Di Matteo e gli altri pm che l'hanno condotta e portata a dibattimento si sarebbero praticamente inventato.
Un colpo al processo sulla trattativa Stato-mafia
Certamente l'assoluzione di Mannino, considerato dai pm l'iniziatore della trattativa e colui che l'ha portata avanti, insieme ad altri del governo Andreotti VII di cui faceva parte come ministro per gli interventi nel Mezzogiorno, almeno fino a quando non la prese in mano Dell'Utri per conto di Berlusconi e le forze neofasciste e golpiste che stavano dietro il nascente movimento Forza Italia, infligge un colpo non indifferente al processo in corso in Assise, ma non ancora fino al punto di negare l'esistenza stessa della trattativa Stato-mafia. L'ex ministro DC è stato assolto infatti con una formula che sostituisce la vecchia assoluzione per insufficienza di prove, non perché “il fatto non sussiste” o perché “non costituisce reato”: ovvero, la trattativa Stato-mafia c'è stata, solo che per il Gup i pm non sono riusciti a provare la responsabilità dell'imputato nell'avviarla e nel portarla avanti.
Per i pm invece, Mannino era l'uomo che nella primavera del '92, dopo che a marzo era stato assassinato Salvo Lima, sentendosi a sua volta minacciato in prima persona dalla vendetta della mafia contro il “tradimento” della DC per le condanne del maxi-processo di Palermo, intavolò una trattativa con gli uomini di Totò Riina e Bernardo Provenzano tramite il Ros di Mori, Subranni e De Donno e il numero tre dei servizi segreti, Bruno Contrada, che a questo scopo contattarono l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Per convincere Cosa nostra a cessare la vendetta contro la DC e lo Stato in cambio di alcuni favori, come l'alleggerimento del carcere duro (41 bis) per i mafiosi in prigione. Il che avvenne effettivamente nel '93 ad opera dell'allora ministro della Giustizia Conso.
Mannino si sentiva nel mirino dei corleonesi già da gennaio, subito dopo che la Cassazione aveva confermato in via definitiva gli ergastoli per Riina e gli altri boss di cosa nostra, tanto che aveva confidato al maresciallo Giuliano Guazzelli: “Ora uccidono me o Lima”. Un timore che diviene terrore dopo l'uccisione del referente della DC e di Andreotti presso la mafia siciliana, e che si fa certezza di essere in cima alla lista della vendetta dopo l'uccisione in aprile anche di Guazzelli e alcuni eloquenti avvertimenti come l'invio di mazzi di crisantemi e l'incendio del suo studio: “sono sulla lista nera”, confessava l'8 luglio il ministro in un'intervista ad Antonio Padellaro, all'epoca vicedirettore dell'Espresso
, cosa che conferma agli occhi dei pm l'urgenza che lo spingeva a promuovere la trattativa Stato-mafia.
Nel giugno del '92, un mese dopo la strage di Capaci in cui furono assassinati il giudice Falcone con la moglie e tutta la scorta, ci fu una soffiata del cosiddetto “corvo 2” che parlava di un incontro tra Mannino e Riina in una chiesa di San Giuseppe Jato. Il 25 giugno il giudice Borsellino interrogava De Donno, sospettato di essere il “corvo” autore della lettera anonima con la soffiata, uscendone probabilmente con la convinzione che organi dello Stato stessero trattando segretamente con la mafia, tanto che chiese di essere sentito come testimone dalla procura di Caltanissetta.
Secondo i pm in quel periodo dell'estate del '92 il ruolo di Mannino emerge anche nell'insediamento di Nicola Mancino al Viminale in sostituzione di Vincenzo Scotti, che sarebbe stato rimosso per facilitare la trattativa; come anche nelle rivelazioni del pentito Gaspare Mutolo a Borsellino sulle collusioni mafiose di Contrada (poi condannato per mafia). Ed è verosimilmente per aver scoperto questa indicibile trattativa tra Cosa nostra, politici, vertici dei carabinieri e dei servizi segreti, che pochi giorni dopo, come sostiene anche la procura di Caltanissetta, Borsellino fu fatto saltare in aria in via D'Amelio con tutta la sua scorta.
Impedire la verità e screditare i magistrati
E' logico perciò che insieme a Mannino cantino ora vittoria all'unisono i politici della destra e della “sinistra” borghese, i vertici delle istituzioni e i loro pennivendoli, che fin da subito hanno messo in dubbio o negato l'esistenza della trattativa Stato-mafia, mettendo in tutti i modi i bastoni tra le ruote ai magistrati inquirenti e difendendo a spada tratta il rinnegato Napolitano che ha fiancheggiato e coperto i tentativi di Mancino di far avocare l'inchiesta alla procura di Palermo. Si vuole da una parte impedire in tutti i modi che emerga la verità su questa indicibile trattativa e che si scoprano i mandanti, e dall'altra screditare ulteriormente la magistratura nell'ambito del disegno piduista che il governo del nuovo duce Renzi, in combutta con la destra neofascista e berlusconiana, sta completando per tagliarle le unghie e assoggettarla definitivamente al potere esecutivo.
E certamente l'assoluzione di Mannino risponde in pieno a questo disegno. Non a caso costui, in un'intervista a Radio 24
del confindustriale Il Sole 24 Ore,
mentre si dichiara un perseguitato “sequestrato per 25 anni” dai pm, ha detto anche che “a me Renzi piace. L'ho anche votato alle europee, al momento è l'unica scelta possibile”; e ha augurato a Dell'Utri, già condannato a 7 anni per mafia, “di poter venire fuori dalla galera, che è un'esperienza terribile”.
E, sempre non a caso, alle dichiarazioni di Nino Di Matteo che ha annunciato subito il ricorso in appello contro l'assoluzione di Mannino (“andiamo avanti con lo stesso impegno e la stessa convinzione di sempre”, ha aggiunto), ha risposto con una secca frenata il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, dichiarando all'Ansa che “valuteremo se impugnare la sentenza solo dopo aver letto le motivazioni”.
Come ha commentato l'ex pm Ingroia in un'intervista a La Repubblica
, si tratta di una “sentenza annunciata”, perché nessuno, “in Italia, e soprattutto dentro le istituzioni politiche e giudiziarie, voleva questo processo che ha creato grattacapi e perfino conflitti con il Quirinale. Convocammo ed ascoltammo l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma quello che i tanti volevano era che si cancellasse la 'trattativa' dal vocabolario e dal pubblico dibattito del Paese”. Ed è quello, aggiungiamo noi, che rischia di avverarsi grazie al terreno favorevole creato dall'avvento del nuovo duce Renzi a Palazzo Chigi.
11 novembre 2015