Tramite Poletti
Il governo attacca l'orario di lavoro
Marcia verso la totale instaurazione del modello contrattuale di Marchionne
Il liberismo è la stella polare economica e sindacale del nuovo duce Renzi
Il governo Renzi lancia continuamente segnali ben precisi per far capire di essere sempre pronto ad intervenire se Confindustria e sindacati confederali non dovessero trovare un accordo sul “nuovo modello contrattuale”. Non si tratta certo di un atteggiamento neutrale né vi è la minima intenzione di salvaguardare gli interessi dei lavoratori: la sua collocazione è al fianco di Squinzi e dei padroni, uniti dalla stessa visione ultraliberista dell'economia dove le linee guida sono la libertà di licenziamento, flessibilità illimitata, precariato, salari da fame, limitazione del diritto di sciopero, sanità e previdenza aziendalizzate e privatizzate.
L'ultima sortita del ministro del lavoro Poletti rientra pienamente in questi binari. Ci riferiamo alle dichiarazioni rilasciate al convegno “dalla scala mobile al Jobs Act” organizzato dalla Luiss, l'università con sede a Roma finanziata da Confindustria che forma gli imprenditori di domani, un titolo e un luogo che da soli sono già tutto un programma. Poletti, dopo aver espresso alcuni pareri sul sistema universitario italiano (anche questi molto discutibili ma di cui ci occupiamo in un altro articolo), è entrato a gamba tesa sui rinnovi contrattuali, in special modo su quale sarà il modello da adottare per il futuro.
Liberismo selvaggio
“Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’opera. L’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione. Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre risultato. Con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà” questa è la frase esatta di Poletti. In pratica la paga del lavoratore deve avere come parametro principale il risultato, cioè quanto produce, materialmente o intellettualmente, non il tempo che viene impiegato nel lavoro.
Ancora una volta si spacciano per modernità il cottimo e il liberismo selvaggio cioè la cancellazione di qualsiasi regola nello sfruttamento della forza-lavoro e di qualsiasi diritto acquisito dai lavoratori. Si definisce innovazione la paga un tanto al pezzo, un tanto a fotocopia, oggi chiamati “risultato”, sistemi che si ricollegano immediatamente al cottimo (che tuttora esiste in certi lavori), riconducibili sopratutto al lavoro autonomo ma che erano la forma predominante anche nel lavoro subordinato nell'industria del 1800 e largamente praticato fino agli anni '60 del secolo scorso. Sistema combattuto dalla classe operaia perché riduceva il lavoratore in schiavitù, spinto a sostenere ritmi sempre più alti e ad entrare in competizione con i suoi compagni.
Il governo del nuovo duce Renzi ha come stella polare della sua politica economica e sindacale il liberismo e fin dal primo giorno del suo insediamento ha lavorato per completare l'attacco al diritto del lavoro borghese portato avanti già dai suoi predecessori.
Continua lo smantellamento dei diritti
Ci riferiamo allo stravolgimento di quel sistema di relazioni industriali, sindacali, di democrazia nelle fabbriche e negli uffici solo abbozzato dalla Costituzione entrata in vigore dopo la Liberazione e delineatosi nei decenni successivi grazie alle lotte del movimento operaio, che negli anni '70 aveva raggiunto una legislazione molto avanzata, pur rimanendo dentro le regole dell'economia di mercato. Queste norme non sono più confacenti nell'attuale fase della globalizzazione capitalistica dove la lotta selvaggia tra le varie economie, uguali come sistema ma in competizione tra loro, richiede poche regole, massima flessibilità e supersfruttamento della forza lavoro.
Questa tendenza prosegue ininterrottamente dalla fine degli anni '80 senza distinzione tra governi borghesi di “sinistra” e di destra anzi, Renzi si può fregiare del titolo di maggiore rottamatore dei diritti dei lavoratori più di Berlusconi, basterebbe il Jobs Act per dimostrarlo. Ma dopo l'eliminazione dell'articolo 18 e dello Statuto dei lavoratori l'opera continua e i prossimi obiettivi sono la cancellazione o quantomeno la limitazione del diritto di sciopero e del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL).
Orario e salario a discrezione dell'azienda
La stessa discussione sul “nuovo modello contrattuale” di questi mesi, voluta da Squinzi ma accettata dai sindacati confederali, va proprio in quella direzione. Ridurre il CCNL a una debole cornice normativa grazie anche all'attuazione dell'accordo del 10 gennaio 2014 che prevede le deroghe dal contratto nazionale per cui ogni singola azienda potrà fare come vuole, mentre il salario sarà determinato quasi esclusivamente dalla produttività aziendale e dall'andamento economico dei singoli settori di lavoro.
Le affermazioni del Ministro Poletti non vanno prese sottogamba considerandole come una battuta estemporanea, ma esprimono qual è il modello di contratto che piace al governo Renzi. Un modello liberista dove l'orario di lavoro è una variabile dipendente completamente dalle esigenze del capitale. Il lavoratore, grazie anche alle nuove tecnologie, deve essere sempre rintracciabile e disponibile e diventa sottinteso che non esiste più l'orario straordinario e il lavoro festivo. Il salario viene ancorato alla produttività, qualche briciola in più se c'è da fare orari massacranti, paghe in picchiata se l'azienda attraversa momenti di crisi.
Un sistema che aggancia sempre più i trattamenti economici a ipotetici “risultati” stabiliti dall'azienda a sua discrezionalità, che divaricano inesorabilmente gli stipendi tra una regione e l'altra, una fabbrica e un altra, un ufficio dall'altro, tra un reparto e un altro, tra un lavoratore e l'altro, rottamando il principio di “stesso salario per lo stesso lavoro” per cui si è battuto il movimento operaio e sindacale per tanti anni, come si è battuto per 8 ore lavorative per 5 giorni. Una nota canzone di lotta diceva “se otto ore vi sembran poche”, sottolineando come la limitazione dell'orario di lavoro è anche un freno allo sfruttamento. Proprio perché il capitale tende ad allungare oltre misura la lunghezza della giornata lavorativa per aumentare il plus-lavoro assoluto e l'intensità dello sfruttamento per aumentare il plus-lavoro relativo.
Modello Marchionne per tutti
Tutte cose superate per il ministro del lavoro Poletti, l'ex capo della Lega delle cooperative amico di Buzzi, uno dei boss di “Mafia Capitale”. Ma la modernità non c'entra niente. Ci sono sempre state particolari attività slegate dall'orario di lavoro e quote di salario legate alla produttività. Tutt'oggi in quasi tutti i settori ci sono premi di produzione aziendale, di reparto, di squadra, di presenza e così via. Qui si vuole applicare a tutti i lavoratori il famigerato modello Marchionne messo in atto per la prima volta a Pomigliano, oltretutto in un sito produttivo “tradizionale” o cosiddetto “taylorista”, dove ci sono operai, turni e catene di montaggio, che per Poletti sembrano invece quasi non esistere più.
Un modello che va a sostituire il vecchio diritto del lavoro borghese con relazioni industriali e sindacali di stampo mussoliniano, ovvero simili a quelle vigenti durante la dittatura fascista dove la classe operaia non aveva alcuna autonomia ed era completamente sottomessa alle esigenze della borghesia nazionale attraverso il corporativismo. Non è un caso che Poletti, rispondendo alle critiche dei sindacati, ha aggiunto che oltre a guadagnare e lavorare quanto decideranno i capitalisti, i lavoratori dovranno “partecipare di più alle decisioni dell'azienda”, ovvero collaborare di più con i padroni, scordandosi d'intralciarli con scioperi e rivendicazioni.
I sindacati hanno reagito alle affermazioni del ministro accusandolo di voler reintrodurre il cottimo, di essere fuori dalla realtà, ma contemporaneamente Cgil, Cisl e Uil trattano con la Confindustria un nuovo modello contrattuale che va nella stessa direzione di quello auspicato dal governo del nuovo duce Renzi, senza nemmeno avere il mandato dei lavoratori. Se veramente si vuole dire di no alle pretese di Poletti, del governo e di Confindustria occorre rompere subito quella trattativa.
9 dicembre 2015