Libera infiltrata dalla mafia?
Don Ciotti, fondatore dell'associazione antimafiosa, accusato di autoritarismo
“Ho messo in evidenza alcune fragilità, a cominciare dal processo di formazione della classe dirigente di Libera, non adeguata alla crescita dell'organizzazione e dalla mancanza di quel confronto in grado di produrre decisioni condivise e azioni adeguate. È come se avessimo rinunciato ad incidere nel dibattito politico. La nostra voce si sente meno e, attorno, il silenzio è assordante, crescente è l'eco dell'antimafia di convenienza e dell'antimafia schermo d'interessi indicibili”: queste secondo Franco La Torre, figlio del deputato del PCI Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982, i motivi che stanno alla base del suo contrasto con don Luigi Ciotti, e che spiegherebbero la sua destituzione dalla segreteria di Libera annunciatagli via sms dal suo fondatore e leader carismatico, in quanto si sarebbe rotto il “rapporto di fiducia” che lo legava all'associazione.
Una destituzione a cui La Torre ha risposto con una lettera di dimissioni da tutti gli incarichi che ricopriva, compresa la presidenza del premio intestato al padre, dopo aver chiesto invano, a suo dire, un colloquio chiarificatore con don Ciotti, accusa che quest'ultimo respinge al mittente. La rottura tra i due è maturata dopo l'assemblea nazionale di Libera del 7 novembre ad Assisi, dove La Torre aveva fatto un intervento assai critico contro la dirigenza dell'associazione, i metodi autoritari con cui viene gestita e i rischi di infiltrazioni da parte di personaggi e interessi legati alla mafia. In particolare aveva puntato il dito sulla situazione a Palermo, dove è stato arrestato per rapporti con la mafia il presidente di Confindustria Sicilia e testimonial della lotta antimafia, Antonello Montante, e dove la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati alla mafia.
Secondo lui la dirigenza di Libera non ha saputo vedere quello che stava avvenendo sotto i suoi occhi, a Palermo ma anche a Roma, come dimostra la vicenda del suo direttore, Enrico Fontana, dimessosi qualche mese fa per aver incontrato nella sede di Libera personaggi poi finiti nell'inchiesta di mafia capitale. Fontana, che don Ciotti si è affrettato invece a difendere definendolo un “un galantuomo”, è l'ex consigliere regionale del Lazio di SEL che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo promotore della campagna “miseria ladra” contro i vitalizi dei politici, e già consulente del presidente del Consiglio regionale PDL Abbruzzese per un progetto antimafia da 20 mila euro di parcella.
Autoritarismo, cecità e conflitti di interessi
“Gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma – ha detto La Torre di don Ciotti all'Huffington Post
- ma è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario. Questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio, ma io un padre ce l'ho e me lo tengo stretto”. “Il fatto che in pochi mesi siano andati via, in diversi modi, cinque dirigenti è un fatto politico che andrebbe affrontato”, ha aggiunto in un'intervista a Repubblica
. Si riferiva evidentemente a sé stesso e alle dimissioni volontarie di Fontana, ma anche a quelle per esempio di Francesca Rispoli, amica del PD Davide Mattiello, relatore del ddl di modifica del 416 ter sul voto di scambio politico-mafioso. Costei dovette dimettersi nel settembre 2013 per non aver informato adeguatamente don Ciotti che quella legge, nata sotto il segno del patto del Nazareno e aspramente criticata anche dal pm di Palermo Nino Di Matteo perché troppo compiacente con i politici collusi, era persino peggiore della precedente, costringendo il leader di Libera che aveva esaltato quella “riforma” a un'imbarazzante retromarcia.
Nel giugno scorso si era dimesso anche il vicepresidente Carlo Andorlini, coinvolto in un'indagine della Corte dei conti su alcune spese quando era capo gabinetto del sindaco di Campi Bisenzio (FI). Persino l'ultimo direttore di Libera, Luigi Lochi, ad appena un mese dalla sua elezione si trova al centro di un conflitto di interessi che minaccia di farlo saltare. Secondo una ricostruzione de
Il Fatto Quotidiano
del 9 dicembre, infatti, l'esperto della gestione dei beni confiscati alla mafia dal '91 al '99 è stato dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (contratto scaduto il 31 maggio scorso), e appena quattro giorni dopo la sua elezione la Camera ha approvato la cosiddetta “norma Saguto” che, secondo un'accusa del M5S, “affida la gestione delle aziende confiscate, anche di grande rilievo, a Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangia-soldi dello Stato”.
Confutazioni e conferme delle accuse
Naturalmente non mancano anche le confutazioni delle accuse avanzate da La Torre, a partire dallo stesso don Ciotti che rigetta l'accusa di autoritarismo e di mancanza di democrazia all'interno di Libera, dichiarando a La Repubblica
che “È diverso tempo ormai che ci attaccano da molte parti. Prima si conosceva il nemico, era la mafia, ora gli attacchi arrivano da più parti. Ma non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi e circostanziati”. Ma ci sono anche difensori d'ufficio, come l'ex giudice Caselli, che a proposito delle critiche di La Torre ha parlato di “fuoco amico”. E di Nando Dalla Chiesa, che le ha definite “ingenerose e ingiuste” (anche se in un altro intervento ha ammesso che Libera è “una creatura fondata su un potere carismatico, dove la leadership non si discute”).
Ciononostante c'è anche chi quelle critiche le conferma, come per esempio Umberto Santino, uno dei massimi studiosi dei poteri criminali e mafiosi e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, che in un'intervista a proposito del caso Helg (il presidente palermitano di Confcommercio, anche lui testimonial della lotta all'estorsione mafiosa, arrestato con l'imputazione di estorsione per una mazzetta da 100 mila euro nel marzo scorso, ndr), parlando di don Ciotti ha dichiarato: “Don Ciotti ha grandi capacità organizzative, il suo impegno è generosissimo ma la gestione di Libera è di tipo leaderistico-carismatico. Io e il Centro Impastato siamo stati per alcuni anni in Libera e abbiamo visto che la democrazia interna è una sconosciuta: i referenti regionali erano nominati e non eletti, scelti in base ad appartenenze e presumibili fedeltà; la richiesta di discussione su fatti gravissimi, come il “dimissionamento” di vicepresidenti e di responsabili nazionali di settori decisivi come la scuola e l’uso dei beni confiscati, non è stata accolta, perché considerata frutto di mancanza di fiducia nel capo. Sono stato “sospeso” dal comitato scientifico di “Narcomafie”, organo dell’associazione, per il solo fatto di aver posto il problema. Mi sono dimesso e da allora il Centro non fa più parte di Libera. Abbiamo pagato e continuiamo a pagare con l’isolamento: classico esempio di monopolismo esercitato dal più forte e dal più abile nel creare consenso e relazioni. Anche questo è un esempio di come l’antimafia rispecchi una società in cui dominano la delega al capo e lo spirito gregario.”
Libera è diventata una holding?
Questo per quanto riguarda le accuse di autoritarismo al capo di Libera e di scarsa trasparenza nella sua gestione interna. Ma quelle più inquietanti sono senza dubbio le accuse riguardanti i rischi di possibili infiltrazioni mafiose a cui l'associazione bandiera della lotta antimafia sarebbe sempre più sottoposta. Ciò a causa delle dimensioni economiche ragguardevoli che avrebbe ormai assunto, grazie agli ingenti finanziamenti pubblici ricevuti, e ai rapporti sempre più stretti con gli ambienti politici che contano.
Secondo la ricostruzione del Fatto
, Libera è oggi una galassia di oltre 1.500 associazioni, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss, con un bilancio in attivo di 207.317 euro, 883.431 euro di disponibilità liquide e 1.081.000 euro di crediti, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate, tra diritti d'autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1.268.000 euro. Solo dalla Unipol che fa capo alla Lega Coop arrivano ogni anno 70 mila euro (c'è chi ha accusato per questo don Ciotti di tiepidezza nei confronti delle coop coinvolte in Mafia Capitale), e dai finanziamenti europei 1.461.000 euro per progetti legati alla gestione dei beni confiscati.
Nonostante che Luigi Ciotti neghi recisamente che l'associazione da lui fondata 20 anni fa sia diventata “una holding”, forse è inevitabile che, arrivata a tali dimensioni possa fare paradossalmente gola agli stessi mafiosi e che vi si possano infiltrare per servirsene, come accusa La Torre, da “schermo d'interessi indicibili”. Specie se viene gestita in modo autoreferenziale, autoritario e poco trasparente, e se è sempre più dipendente dai finanziamenti pubblici e dal potere politico che li distribuisce, e col quale finisce inevitabilmente per stringere un rapporto consociativo che ne snatura gli scopi per i quali era nata.
23 dicembre 2015