Renzi salva le banche non le vittime
La Boschi deve dimettersi
A un mese di distanza dal decreto cosiddetto salvabanche lo scandalo che ha innescato non accenna a spegnersi e anzi continua ad allargarsi sempre di più nel Paese. Una storiaccia che coinvolge l'intero sistema bancario italiano dalle basi malate, e la sua amministrazione cinica e opaca che scarica i debiti sui risparmiatori raggirati; la Banca D'Italia e la Commissione di vigilanza sulla Borsa (Consob), che invece di sorvegliare, prevenire e punire gli abusi li agevola e li copre; il governo, che in palese conflitto di interessi, con il suo ministro delle Riforme e lo stesso presidente del Consiglio legati direttamente a personaggi e vicende coinvolti nello scandalo, si dà da fare per salvare i responsabili e chi li copre; e l'Unione europea, che ancora una volta si dimostra essere una macchina spietata atta solo a sfornare regole liberiste che schiacciano i più deboli e favoriscono i capitalisti, i banchieri e la grande finanza internazionale.
Questo è quanto emerso dopo il decreto del 22 novembre con cui il governo ha salvato quattro banche popolari sull'orlo del fallimento: la Banca popolare dell'Etruria e del Lazio (Bpel), con sede centrale ad Arezzo, la Banca Marche, la Cassa di risparmio di Chieti e la Cassa di risparmio di Ferrara. Il “salvataggio” è stato fatto applicando in anticipo le nuove regole europee sul bail-in
, che entreranno in vigore con effetto retroattivo dal 1° gennaio, le quali stabiliscono in pratica che a salvare le banche dal fallimento non possa più essere lo Stato, ma direttamente i loro clienti, a cominciare dagli azionisti e dai possessori di obbligazioni “subordinate”, quei titoli cioè ad alto rischio che possono essere rimborsati solo per ultimi e solo se resta qualcosa dopo aver pagato tutti gli altri aventi diritto.
Di conseguenza sono stati azzerati di colpo 2,6 miliardi di euro di risparmi dei 130 mila tra azionisti e obbligazionisti di queste quattro banche. Di cui 788 milioni di bond subordinati. Nella sola provincia di Arezzo sono stati bruciati in una notte 250 milioni di euro. Facile immaginare la disperazione dei risparmiatori, che da un giorno all'altro hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita. E oltre al danno hanno avuto anche l'umiliazione di essere stati raggirati dalle banche di paese di cui si fidavano ciecamente, che per ricapitalizzarsi ed evitare il fallimento li hanno convinti a sottoscrivere obbligazioni subordinate, nascondendo loro i rischi a cui andavano incontro.
Un meccanismo infernale e spietato
Profonda sensazione ha destato a questo riguardo il suicidio di un pensionato di Civitavecchia, Luigi D'Angelo, cliente della Banca Etruria, quando ha scoperto di aver perso 120 mila euro che erano i risparmi di una vita. Si era fidato dell'impiegato che conosceva bene e che gli aveva proposto di investirli tutti in obbligazioni. Quest'ultimo, distrutto dalla tragedia provocata, ha rivelato che era la banca stessa a fare pressioni sul personale per vendere quei prodotti ad alto rischio ai correntisti. Sul caso la procura di Civitavecchia ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.
Le banche cambiavano i prospetti informativi, nascondendo agli acquirenti le probabilità di rischio, abbassando opportunamente i rendimenti per mascherare meglio la loro pericolosità, ottenendo così un doppio guadagno. La fiducia cieca dei correntisti faceva il resto. Pensavano di prestare soldi alla propria banca di paese, e invece ne diventavano soci, assumendone tutti i rischi del caso. Tuttavia i colpiti non mancano neanche tra i dipendenti, che pur consapevoli del rischio erano spinti a comprare quei titoli per sostenere la ricapitalizzazione e salvare il posto di lavoro. Lo stesso vale per molti imprenditori, che dovevano acquistare obbligazioni subordinate se volevano ottenere i fidi.
La normativa europea sul bail-in
è quanto di più cinicamente liberista la Ue abbia mai escogitato finora, anche perché prima che le norme cambiassero la Germania ha pensato bene di salvare le sue banche per ben 238 miliardi, la Spagna con 52, l'Irlanda con 42, la Grecia con 40, e così via. L'Italia invece ha rimandato il problema, perché con i soldi in prestito della Bce le sue banche dovevano comprare titoli di Stato, invece di usarli per ricapitalizzarsi come hanno fatto le banche degli altri paesi europei, meno indebitati dell'Italia.
Eppure i governi, da quello Berlusconi-Tremonti in poi, erano perfettamente consapevoli della mazzata che prima o poi si sarebbe abbattuta sui risparmiatori per effetto di quelle norme, e non hanno fatto nulla per evitarla. A votarle al parlamento europeo erano stati tutti i partiti, dal PD al “centro-destra”, Lega compresa che ora cavalca cinicamente l'indignazione popolare a fini elettorali. Ed erano state ratificate senza problemi sia alla Camera che al Senato nel 2015.
Per salvare le quattro banche il governo avrebbe potuto usare il fondo europeo di tutela dei depositi, ma la Ue non lo ha permesso. Anzi, ora la Ue contesta all'Italia come aiuto di Stato persino la parziale copertura che la Cassa depositi e prestiti ha fatto sul salvabanche, che costerà 3,6 miliardi del “fondo di risoluzione”, formalmente a carico del sistema bancario, ma che quest'ultimo, grazie a un trucco contabile del governo, potrà recuperare attraverso agevolazioni e sgravi fiscali inseriti nella legge di Stabilità.
Un sistema marcio dalle fondamenta
Per i risparmiatori derubati, invece, non c'è misericordia: la Ue ha chiuso la questione sentenziando che “sono stati venduti prodotti inappropriati a persone che forse non sapevano che cosa compravano”. E il governo ha cercato di cavarsela annunciando la solita commissione d'inchiesta e, per bocca del ministro del Tesoro Padoan, un “aiuto umanitario” di 100 milioni, per risarcimenti da assegnare “caso per caso” ai 12.500 obbligazionisti truffati (8 mila euro di media a testa, quando le cifre perdute vanno dai 10 mila ai 140 mila euro), mentre le associazioni dei consumatori calcolano che servirebbe un fondo almeno quattro volte superiore.
Ma come si è potuto arrivare a questa disastrosa situazione? Ne sono corresponsabili l'associazione delle banche (Abi), i governi che si sono succeduti in questi anni, gli istituti di vigilanza e la stessa Bce presieduta da Draghi. A partire dal 2009, in piena crisi finanziaria, gli investitori istituzionali erano in fuga dall'Italia e le banche avevano bisogno di rifornirsi di soldi freschi dai risparmiatori. In questi anni sono state piazzate subordinate per 35 miliardi. Il mandante è stato dunque l'Abi. La Banca d'Italia, oggi governata da Ignazio Visco, approvava e agevolava incitando le banche a rafforzarsi dotandosi di nuovi capitali. La Consob faceva da palo allentando le regole sui controlli: nel 2009 il suo attuale presidente, Giuseppe Vegas, ha eliminato l'obbligo di indicare nei prospetti di sottoscrizione gli scenari probabilistici di rischio. Il che, come ha osservato efficacemente un giornalista, è stato come levare un semaforo rosso ad un incrocio pericoloso.
Banca Etruria, per esempio, nell'emissione 2013 di subordinate per ben 120 milioni di euro, nascondeva che il risparmiatore aveva oltre il 62% di probabilità di perdere la metà del capitale. E tutte queste operazioni di ricapitalizzazione drenando soldi direttamente “dal mercato” erano incoraggiate caldamente anche da Draghi. Il risultato è che oggi si calcola che dal 1° gennaio le sofferenze a rischio nella pancia delle banche ammontino a 200 miliardi, coperte solo dal 30 al 50% dalle risorse patrimoniali. E tra queste sofferenze ci sono ben 71,25 miliardi di bond subordinati. Di cui almeno la metà posseduti dai piccoli risparmiatori. E già si affacciano all'orizzonte altri casi simili alle quattro banche “salvate”, tra cui la Banca popolare di Vicenza e la Banca veneta.
Dopo gli scandali Parmalat e Cirio, e dopo quello del Monte dei Paschi, che erano stati dati per casi isolati, siamo di nuovo punto e a capo, a dimostrazione che è l'intero sistema bancario e finanziario capitalista ad essere marcio dalle fondamenta. Eppure Renzi dalla Leopolda si è vantato di aver salvato i conti dei correnti e i posti di lavoro di migliaia di persone, e proclama che “il nostro sistema bancario è più solido di quello tedesco”. Padoan gli ha fatto eco sentenziando che “il sistema bancario italiano è sano e solido”, accusando i giornalisti che gli ponevano domande fastidiose di “sciacallaggio” e tacciando i risparmiatori di dabbenaggine per essersi fatti truffare, stante la “scarsa educazione finanziaria degli italiani”.
Il caso emblematico di Banca Etruria
Si assiste a un vergognoso scaricabarile tra governo, Bankitalia e Consob, con queste due istituzioni che giurano entrambe di aver “fatto il meglio”, coperte da Padoan e ultimamente anche da Mattarella, e Renzi che furbescamente cerca di stornare tutta la responsabilità su di loro, tanto che ha tolto loro l'arbitrato sui casi dei risparmiatori da rimborsare (con un'elemosina), e lo ha affidato al solito presidente dell'Autorità anti corruzione, Cantone. Ma intanto, dopo il monito di Mattarella a non delegittimare Bankitalia, ha deciso di declassare la commissione di inchiesta a commissione di indagine, cioè con molti meno poteri sanzionatori.
Particolare rilievo assume la vicenda della Banca Etruria, da sempre crocevia della finanza massonica e cattolica, ora oggetto di ben quattro inchieste aperte dalla procura di Arezzo, che riassume in sé tutti i peggiori tratti di questo scandalo e si lega a pesanti casi di conflitto di interessi che coinvolgono anche il governo Renzi. L'istituto aretino, da tempo in gravi difficoltà finanziarie, era stato oggetto negli ultimi anni di diverse visite degli ispettori di Bankitalia, per i crediti facili accordati ad amministratori e ai loro amici senza le dovute garanzie, per le spese fuori controllo, le acquisizioni sbagliate a prezzi fuori mercato, gli emolumenti principeschi ad amministratori e dirigenti, che avevano provocato gravi dissesti, e dai quali aveva cercato di uscire lanciando a settembre 2013 un aumento di capitale di 110 milioni e piazzando bond subordinati per 120 milioni.
Il 3 dicembre di quello stesso anno il governatore di Bankitalia Visco scriveva una lettera al cda in cui avvertiva che la banca era travolta “in modo irreversibile” da un “progressivo degrado” in corso da 11 anni. La lettera veniva però secretata per non disturbare la ricapitalizzazione in corso, e anche la Consob, venuta a conoscenza della lettera due giorni dopo, copre la situazione dicendo che i rilievi dell'ispezione non assumono rilevanza “pregiudiziale”. Se invece i risparmiatori lo avessero saputo avrebbero sottoscritto lo stesso le obbligazioni loro proposte dalla banca?
In questa ispezione erano stati sanzionati tutti i membri del cda, tra cui il padre della ministra Boschi, Pier Luigi, con 144 mila euro di multa per aver commesso sei gravi irregolarità. Da questa ispezione era scaturito inoltre uno dei quattro filoni d'inchiesta della procura di Arezzo, con l'ex presidente Giuseppe Fornasari e l'ex direttore generale Luca Bronchi indagati per ostacolo alla vigilanza. Inoltre Bankitalia sollecitava un cambiamento dei vertici della banca, che avveniva con la nomina a presidente di Lorenzo Rosi e di Boschi alla vicepresidenza.
Un'altra ispezione, iniziata nel novembre 2014 e terminata nel febbraio 2015 col commissariamento della banca, metteva in evidenza che il vertice continuava a spendere e spandere anche mentre continuava a macinare perdite: 15 milioni di consulenze esterne, premi ai dipendenti per più di 2 milioni, liquidazione da 900 mila euro all'ex dg Bronchi, 185 milioni di fidi e crediti facili concessi ad amministratori e loro parenti e amici, fidejussioni insufficienti nel 91% dei casi, e così via. Gli amministratori erano “quasi tutti privi di competenze specifiche”, e per gestire gli affidamenti c'erano solo 19 persone, con 550 fascicoli a testa. Addetto alla gestione crediti era il fratello della Boschi, Emanuele. In questa occasione il padre della Boschi riceveva sanzioni per ben 11 irregolarità riscontrate. Gli ispettori sottolineavano anche che le decisioni venivano prese da un direttorio segreto (commissione consiliare informale), in cui sedevano Rosi e i due vice, Alfredo Berni e Pier Luigi Boschi. Loro decidevano e il cda ratificava senza discutere.
Conflitti di interessi e arroganza di potere
Da questa ispezione è scaturito un altro filone dell'inchiesta, con indagati per conflitto di interessi il Rosi e l'amministratore Luciano Nataloni. Boschi per ora non è stato indagato dal pm titolare dell'inchiesta, Roberto Rossi. Sul quale però pesa l'ombra del conflitto di interessi perché si è scoperto che è anche consulente di Palazzo Chigi, nel dipartimento retto dalla fedelissima di Renzi, Antonella Manzione. Ad ottobre scorso Rossi figura in un convegno ad Arezzo con la Boschi, Giuseppe Fanfani (nipote del defunto boss aretino della DC, due volte sindaco e recentemente promosso al Csm da Renzi) e Domenico Manzione, fratello di Antonella.
Insomma, conflitti di interessi come se piovesse. A chi le chiedeva di dimettersi, come ha fatto Roberto Saviano, per il clamoroso conflitto di interessi tra il salvabanche e la posizione del padre e del fratello nello scandalo Banca Etruria, la ministra Boschi negava con arroganza l'esistenza stessa del problema (perché era uscita dalla stanza al momento del voto in Consiglio dei ministri sul decreto), e sfidava l'opposizione parlamentare a sfiduciarla in parlamento sulla richiesta di dimissioni presentata dal M5S. Poi alla Camera se l'è cavata facilmente con 373 voti a 129, grazie anche all'uscita dall'aula di Forza Italia.
Ma la questione delle sue dimissioni non deve considerarsi chiusa: l'arrogante e ambiziosa ministra, che ha in mano la chiave della controriforma fascista e piduista della Costituzione, se ne deve andare. E l'ombra del conflitto di interessi resta sulla strada del governo Renzi come un macigno duro da rimuovere, anche perché è cominciato a spuntarne un altro che lo riguarda direttamente coinvolgendo la sua famiglia. Infatti suo padre Tiziano, già indagato per bancarotta fraudolenta per il crac da 1,3 milioni di euro della Chil Post, è risultato consulente di una cordata che si occupa della costruzione di Outlet del lusso, tra cui l'ampliamento del Mall a Leccio di Reggello e la costruzione di altri due a Fasano di Puglia e a Sanremo.
Tiziano ha il compito di trattare con i sindaci e curare i rapporti politici. Nella società è amministratore, guarda caso, Lorenzo Rosi: sì, proprio l'ex presidente indagato di Banca Etruria. La società risulta infatti beneficiaria di fidi senza garanzie tra quelli che hanno affossato la banca. I terreni dell'ampliamento del Leccio sono in parte di proprietà dell'ex sindaco di Rignano Sergio Benedetti, poi nominato da Renzi nel Cda del Maggio musicale fiorentino. Partecipavano all'affare anche Andrea Bacci (finanziatore della fondazione Big Bang e nominato da Renzi amministratore di partecipate fiorentine), Andrea Moretti, imprenditore aretino azionista di Banca Etruria, imparentato con l'ex socio di Licio Gelli nella Lebole, e Ilaria Niccolai, immobiliarista (Nikila Invest), da un anno socia del padre e della madre di Renzi, Laura Bovoli, nella Party srl. Nonché Luigi Dagostino, compagno della Niccolai, il tramite con società estere e abile speculatore immobiliare.
Il tributo di Renzi ai suoi “padrini”
Tra l'altro la Niccolai ha rilevato per 25 milioni il teatro Comunale (dopo che Renzi l'aveva chiuso e svenduto a Cassa depositi e prestiti, presidente Claudio Costamagna, nominato sempre da Renzi), col progetto di costruirci un complesso di appartamenti di lusso. Quest'altro filone della vicenda ci porterebbe troppo lontano, per cui per ora lo interrompiamo qui, ma è chiaro da questi intrecci vorticosi che col salvabanche Renzi ha pagato un tributo alla cordata imprenditoriale e finanziaria toscana di matrice democristiana e massonica che lo ha allevato, foraggiato e portato al potere.
E lo dimostrano anche le rivelazioni de “Il Giornale” sul magnate Carlo De Benedetti, tessera n.1 del PD e grande sponsor di Renzi che sostiene sempre più sfacciatamente con il suo quotidiano “La Repubblica”, che avrebbe realizzato 600 mila euro di profitto speculando sulle azioni delle banche popolari, tra cui Bpel, quando il 20 gennaio Renzi decretò la trasformazione di dieci di esse in spa.
Secondo un'intercettazione telefonica De Benedetti avrebbe usufruito di informazioni riservate da ambienti di governo. Stessi sospetti anche sul finanziere Davide Serra, titolare del fondo estero Algebris e grande finanziatore di Renzi, che a marzo era stato convocato dalla Consob per chiarire una strana operazione da 5,2 milioni di euro proprio alla vigilia del decreto sulle banche popolari. Vera anticamera di quello salvabanche, che sicuramente è destinato a non essere archiviato facilmente e a riservare altre sorprese.
23 dicembre 2015