Passa la Rai di Renzi
Pieni poteri all'amministratore delegato al servizio del governo
La nuova Rai renziana e di governo è fatta: il 22 dicembre, subito dopo aver messo in saccoccia la legge di Stabilità, Renzi ha fatto votare definitivamente dal Senato anche la sua “riforma” della Rai, che in buona parte aveva già anticipato col rinnovo dei vertici effettuato il 4 agosto con la vecchia legge Gasparri, quando si era assicurato la maggioranza del nuovo Consiglio d'amministrazione (cda), nominando personalmente il direttore generale e spartendosi a mezzadria con Berlusconi la presidenza dell'ente, con l'elezione della super allineata Monica Maggioni.
Di conseguenza l'attuale direttore generale, nella persona del fedelissimo Antonio Campo Dall'Orto, renziano della prima ora e creatore mediatico della Leopolda insieme al berlusconiano direttore di Canale 5, Giorgio Gori), dall'entrata in vigore della legge acquisterà i poteri di amministratore delegato (ad) dell'azienda Rai, equiparata a tutti gli effetti ad una società privata, pur mantenendo tutti i poteri attuali.
Secondo le nuove norme, quindi, come per qualsiasi altra società “pubblica” come Eni, Enel, Ferrovie ecc., l'amministratore delegato è nominato dal cda su proposta dell'azionista di maggioranza, il Tesoro: cioè il governo. Solo che non si tratta di una società che vende prodotti o servizi, ma gestisce la diffusione pubblica di informazioni, opinioni, cultura, e come tale ha il potere di condizionare l'opinione pubblica. E l'ad ha piena facoltà di nominare a sua volta i direttori di reti e di testate, e perfino l'assunzione, la nomina, la promozione e la collocazione dei singoli giornalisti, nonché di firmare contratti fino a 10 milioni di euro. Avrà anche piena autonomia nella gestione economica, con la facoltà di nominare per esempio il capo del personale e della finanza aziendale.
E' vero che il cda può opporsi alle nomine decise dal capo, ma per farlo deve avere la maggioranza dei due terzi dei componenti (attualmente 9, che scenderanno a 7 a regime), di un Consiglio rigidamente lottizzato dove il governo ha comunque la maggioranza e l'ad ha pure diritto di voto. Inoltre, con la “riforma” del canone inserita nella legge di Stabilità, che non sarà più pagato direttamente alla Rai ma addebitato a rate nella bolletta Enel col pretesto del recupero dell'ingente evasione fiscale, l'azienda si troverà a dipendere finanziariamente dalle erogazioni decise volta a volta dal governo. Mentre i soldi recuperati (si parla di 180 milioni reali al massimo, e non 420 come stimato da Mediobanca) copriranno a malapena i 150 milioni l'anno già scippati da Renzi e che hanno costretto l'azienda a mettere sul mercato la rete pubblica di trasmettitori di Rai Way.
É evidente che tutto ciò mette direttamente nelle mani della presidenza del Consiglio, ossia del nuovo duce Renzi, le leve di una formidabile macchina mediatica per il controllo dell'opinione pubblica. Cosa di cui ha un estremo bisogno per supportare la sua “narrazione” sul paese ormai “in ripresa” e in vista delle difficili amministrative di primavera a Roma, Milano e Napoli, e soprattutto del referendum plebiscitario sulla sua controriforma neofascista e piduista della Costituzione.
Lo denunciano anche il segretario generale e il presidente della Federazione nazionale dei giornalisti (Fnsi) Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del sindacato dei giornalisti Rai (Usigrai), Vittorio Trapani, che in una nota congiunta scrivono: “Il presidente del Consiglio aveva promesso di togliere la Rai ai partiti e restituirla ai cittadini, e invece l'ha messa alle dirette dipendenze del governo. Con un doppio colpo, Palazzo Chigi ha portato sotto il proprio diretto controllo i due pilastri dell'autonomia e dell'indipendenza dei servizi pubblici: fonti di nomina e finanziamenti”. “Da oggi – spiegano infatti Fnsi e Usigrai – la Rai sarà guidata da un amministratore delegato, quindi da un capo azienda con molti più poteri, scelto direttamente dal governo. Allo stesso tempo, con la legge di Stabilità, il governo si prende il controllo anno per anno anche dei finanziamenti del Servizio Pubblico, uno degli strumenti più forti per condizionare la gestione e le scelte editoriali della Rai”.
Completato un altro punto del piano P2
Anche il presidente della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, Roberto Fico del M5S, ha attaccato il provvedimento definendolo una “legge Gasparri 2.0”, denunciando che “in pericolo ci sono il pluralismo e la libertà di informazione con gravi conseguenze per gli equilibri democratici”. A sua volta il chiamato in causa, il senatore di FI Maurizio Gasparri, ha auspicato che sia la Consulta a bocciare “una leggina che sarà stracciata per la sua palese illegalità”, in cui “comanda tutto un amministratore delegato scelto dal governo, negando quattro sentenze della Corte costituzionale”. Ma la sua è solo una ripicca per il fatto che sia stato Renzi a completare quel che lui stesso aveva portato a buon punto per conto di Berlusconi. Così che ora è il piduista di Rignano a coglierne i frutti invece che il piduista di Arcore.
Ma il disegno è sempre lo stesso: quello scritto nel piano della P2, che non a caso tra i suoi punti metteva anche quello del “dissolvimento della Rai” come servizio pubblico e del suo diretto controllo da parte del governo. Un disegno cominciato a essere attuato già con Craxi e Berlusconi, attraverso la legalizzazione delle tv private e la creazione dell'impero Mediaset, protetto da tutti i governi di destra e di “sinistra” che si sono succeduti fino ad oggi, compreso l'attuale, e che ora si realizza compiutamente con la controriforma della Rai attuata dal nuovo duce Renzi.
E già Renzi e Campo Dall'Orto lavorano alacremente al nuovo organigramma dei direttori di rete e di tg che, manco a dirlo, vedono in pole position altri personaggi fabbricati in vitro nel laboratorio mediatico della Leopolda. Non a caso, appena approvata la legge, il rappresentante del PD in commissione Vigilanza, Michele Anzaldi, ha ricominciato ad attaccare il tg3 presentando una denuncia all'Agcom perché avrebbe la tendenza “a favorire l'opposizione a discapito delle forze di maggioranza” (sic): segnale eloquente di un imminente “cambio di passo” alla testa di un tg ritenuto ancora non abbastanza allineato con la nuova segreteria PD, nonostante gli sforzi del sempre servizievole Maurizio Mannoni.
Significativo poi che Mattarella non abbia profferito verbo su questo ennesimo golpe piduista di Renzi, limitandosi a controfirmarlo alla stregua di un atto di ordinaria amministrazione: ma non era stato proprio lui, nel 1990, a dimettersi da ministro in dissenso con la legge Mammì che legalizzava le tv abusive di Berlusconi? Evidentemente o ha perso la memoria o sta continuando ancora a pagare pegno per la dorata poltrona del Quirinale che gli ha procacciato il nuovo duce.
5 gennaio 2016