Nuovo passo avanti della controriforma piduista del Senato
Contemporaneamente parte il movimento per bocciarla al referendum
Il nuovo duce Renzi si gioca la carriera politica pur di completare il regime neofascista

Il 20 gennaio la controriforma costituzionale neofascista e piduista firmata Renzi-Boschi, che cancella il Senato della prima Repubblica democratica borghese e che, in combinato con la legge elettorale Italicum fascistissimum, cambia anche la forma di governo istituendo surrettiziamente il premierato, ha fatto un altro passo avanti, forse decisivo, con l'approvazione da parte del Senato dello stesso testo blindato già approvato l'11 gennaio alla Camera e il 13 ottobre 2015 al Senato. In quell'occasione Renzi aveva lasciato apportare alcune modifiche marginali al testo del disegno di legge Boschi, anche se ciò comportava un passaggio in più alle camere, ma solo per concedere un pietoso alibi alla capitolarda sinistra interna del PD in cambio della sua rinuncia definitiva a dare battaglia (si fa per dire) al provvedimento.
A questo punto, perciò, manca solo un'altra approvazione senza modifiche alla Camera, che presumibilmente ci sarà ad aprile, e la doppia lettura conforme a distanza di tre mesi richiesta dall'articolo 138 per le modifiche della Costituzione sarà completata, e con essa anche l'affossamento definitivo della Costituzione del 1948 per completare il regime neofascista, come prescritto nel piano della P2 di Gelli. Un percorso già iniziato da Craxi e perseguito per vent'anni da Berlusconi, e adesso portato a compimento dal nuovo duce Renzi.
Sulla sua strada resta solo un ultimissimo ostacolo: il referendum popolare, che lo stesso articolo 138 prevede, quando una legge che intende modificare la Costituzione non è approvata da almeno i due terzi dei parlamentari di ciascuna camera. Una norma che i costituenti inserirono per salvaguardarla da possibili atti di forza dei governi di turno, come appunto è il caso di questa controriforma, nata dal patto piduista del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, e imposta con la prepotenza dal governo grazie a un parlamento nero di nominati dalle segreterie dei partiti, eletti con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, e zeppo come nessun altro di corrotti, mafiosi e voltagabbana. Non a caso il PD ha fatto di tutto per anticipare il voto al Senato al 20 gennaio, cioè prima del già fissato rinnovo delle presidenze delle commissioni parlamentari, così da poter ricattare la minoranza interna sconsigliandola dal tentare colpi di coda all'ultimo momento.
La strategia renziana del plebiscito
Il referendum lo possono richiedere un quinto dei membri di una camera, o 500 mila elettori o 5 Consigli regionali. Si tratta quindi di un referendum eminentemente di carattere abrogativo, uno strumento con cui il popolo può dire l'ultima parola quando dei cambiamenti costituzionali possano non essere ampiamente condivisi dai partiti ma imposti solo da una stretta maggioranza. A maggior ragione quando, come in questo caso, a essere manomessi sono oltre 40 articoli della Carta e a farlo sono un governo nato da un colpo di palazzo e un parlamento delegittimato da un'elezione dichiarata incostituzionale. Così avvenne infatti nel 2006, quando i Comitati per il no, che avevano raccolto le firme per convocare il referendum, riuscirono a respingere la controriforma neofascista, presidenzialista e federalista della Costituzione del governo Berlusconi-Bossi-Fini, imposta nel 2005 al parlamento dalla sola maggioranza fascioleghista.
Ciononostante il nuovo duce Renzi, ribaltando la frittata, ha annunciato che sarà il suo stesso governo a chiedere il referendum, da intendersi come “confermativo” della sua controriforma, e che se questa dovesse essere bocciata egli darebbe le dimissioni, anzi lascerebbe addirittura la politica. In questo modo, in perfetta coerenza con il suo stile mussoliniano, egli punta a conseguire almeno tre obiettivi: far sembrare che il referendum popolare, che presumibilmente si svolgerà in ottobre, discenda da una sua decisione e gentile concessione dall'alto, invece che da una precisa norma della Costituzione, in modo da sminuire in partenza l'iniziativa di raccolta delle firme dei Comitati per il no; trasformare il referendum in un plebiscito su se stesso, chiamando così a raccolta, per vincere questa che ha definito “la madre di tutte le battaglie”, tutti i “poteri forti” che lo sostengono; stornare l'attenzione dalle prossime elezioni amministrative di giugno, in cui sono in ballo città cruciali come Roma, Milano, Napoli e Torino, e dalle quali Renzi si aspetta altre batoste.
Egli conta infatti di presentarsi al referendum con in tasca l'Italicum, che dovrebbe essere varato definitivamente a luglio, e dopo una campagna per il sì martellante e capillare che, come ha annunciato, intende condurre personalmente, senza risparmio di mezzi e “porta a porta”, per la quale ha assoldato appositamente il guru americano della seconda elezione di Obama e dell'elezione di Cameron, e con l'appoggio di tutti i suoi supporter dell'economia, della finanza e dei mass media, sul modello dei comitati per la Leopolda. Facendo leva sugli aspetti demagogici della “riforma”, come la riduzione del numero dei senatori da 315 a soli 100 non remunerati, l'abolizione delle Province e del Cnel, il taglio dei costi della politica, per unire i voti dell'elettorato del PD a quelli dell'elettorato berlusconiano e leghista, e in parte perfino del M5S. Il partito del “cambiamento” contro il partito dei “conservatori”, della “casta”, dei “professoroni” e dei “gufi”: questa è la narrazione furbesca con la quale Renzi conta di vincere il referendum.
Italicum e controriforma, i due assi di Renzi
Il nuovo Mussolini sa che per tutto ciò i sondaggi lo danno favorito, e così punta tutto sul referendum che, se gli va bene, gli permetterebbe di blindare la sua poltrona fino alle prossime elezioni politiche, magari anticipate e da lui stesso provocate, che conta di vincere grazie al meccanismo ultramaggioritario dell'Italicum e al pieno controllo delle candidature che esso gli garantisce. Una volta rieletto premier, nessuno più lo potrebbe scalzare almeno per tutta la prossima legislatura, grazie alle nuove regole imposte dalla controriforma costituzionale: soppressione del bicameralismo; riduzione del Senato ad organo decorativo formato da consiglieri regionali e sindaci in gran parte da lui nominati e controllati, ma dotati comunque di immunità parlamentare; fiducia votata dalla sola Camera ridotta a passacarte del governo, obbligata ad approvare le leggi del governo entro 70 giorni. E senza contropoteri di bilanciamento, poiché anche i giudici costituzionali e il presidente della Repubblica sarebbero eletti dal partito vincente che, grazie all'Italicum, con appena il 20-25% dei voti degli aventi diritto può arrivare a disporre della maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.
E se invece gli va male? Gli resta comunque l'opzione delle elezioni anticipate con l'Italicum, giacché da quel bugiardo che è non c'è da fidarsi che si ritiri dalla politica. Non a caso, interpellata in proposito a “Otto e mezzo”, la ministra Boschi ha detto: “Se vincesse il no al referendum noi ci sottoporremo alle urne”. Quindi la banda di Renzi non andrebbe a casa, come giura ipocritamente il capo per trasformare il referendum in un plebiscito su sé stesso, ma porterebbe il Paese alle urne con l'Italicum.
Costituito il Comitato per il no
L'11 gennaio, contemporaneamente all'approvazione da parte della Camera, a Montecitorio si è costituito ed ha tenuto un'affollatissima riunione il Comitato per il no alla “riforma” Renzi-Boschi: è presieduto dal costituzionalista Alessandro Pace, presidente onorario l'ex giudice costituzionale Gustavo Zagrebelsky. Vi fanno parte come membri del Consiglio direttivo molti costituzionalisti, giuristi, docenti, giornalisti e scrittori, tra cui Stefano Rodotà, Domenico Gallo, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Massimo Villone, Alfiero Grandi, Paolo Maddalena, Giovanni Palombarini, Raniero La Valle, Livio Pepino, Armando Spataro, Sandra Bonsanti, Vincenzo Vita ecc. Hanno aderito anche il matematico Piergiorgio Odifreddi, lo scrittore e animatore di Slowfood, Carlo Petrini, associazioni come Libertà e giutizia, Articolo 21, Giuristi democratici, Rete per la Costituzione, la Fiom di Landini, mentre la Cgil non ha ancora preso una decisione ufficiale.
Per il 30 gennaio il Comitato ha fissato un altro appuntamento alla Sapienza di Roma, a cui ha invitato altre associazioni tra cui Anpi e Arci. Non è stato ancora deciso se sarà seguita la strada della raccolta delle firme nella popolazione o affidarsi alla più facile strada di un'iniziativa parlamentare dell'opposizione. Quest'ultima opzione porterebbe con sé il rischio che il Comitato finisca per andare a rimorchio dei partiti schierati in ordine sparso per il no e dei loro più disparati e strumentali interessi di bottega, dal M5S alla Lega, da SEL-SI a Forza Italia. Mentre invece la prima consentirebbe al movimento di agire in autonomia e coinvolgere direttamente le masse in questa importante battaglia, a cui anche il PMLI è pronto a dare tutto il suo contributo affinché si concluda vittoriosamente come nel 2006.
Fermo restando che per noi questa battaglia non può essere rinchiusa negli asfittici limiti della difesa della Costituzione borghese del 1948, che del resto non esiste più essendo già stata fatta a brandelli dal regime neofascista, e che il miglior modo di sbarrare il passo all'avanzata del nuovo Mussolini e della sua controriforma costituzionale neofascista resta sempre quello della lotta di massa e di piazza, per cacciarlo via insieme al suo governo filopadronale, piduista e interventista, prima che riesca a fare tabula rasa dell'intera sovrastruttura democratica borghese del capitalismo nonché di tutti i diritti e le conquiste dei lavoratori e delle masse popolari italiane che sta demolendo pezzo per pezzo.
 
 
 

20 gennaio 2016