Con la legge Madia e la controriforma dei Beni culturali
Renzi vuole cancellare la tutela del patrimonio artistico e sottomettere le soprintendenze al governo
Ritornano le soprintendenze uniche introdotte da Mussolini nel 1923

Procede a passo di carica il piano di Renzi e del suo reggicoda Franceschini per smantellare ogni tutela pubblica sul patrimonio archeologico, storico, artistico e paesaggistico italiano e spianare la strada alla speculazione privata interna e internazionale: il 22 dicembre il nuovo duce e il ministro del Beni culturali hanno firmato un decreto che riorganizza tutte le Soprintendenze nazionali, accorpando quelle archeologiche a quelle delle belle arti e paesaggio, che a loro volta sono frutto di una precedente fusione, fatto appena un anno fa da Franceschini, tra le Soprintendenze ai beni storico-artistici e quelle ai beni architettonici. Vediamo perché questa sporca operazione, passata nel silenzio pressoché totale dei mass-media di regime, prepara il terreno alla privatizzazione dell'immenso patrimonio nazionale, come hanno denunciato gli studiosi, gli operatori e i lavoratori addetti alla sua tutela e conservazione. Che si sono immediatamente mobilitati contro questo nuovo scempio, cominciando con due combattivi sit-in davanti al ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact) a Roma, il 28 gennaio e il 1° febbraio, e che proseguiranno nei prossimi giorni con altre agitazioni per chiedere che il ministro revochi il provvedimento e apra un confronto con le organizzazioni sindacali e di base.
L'accorpamento è stato preparato da una norma inserita ad hoc nella legge di Stabilità che dà via libera alla riorganizzazione del ministero “anche mediante soppressione, fusione o accorpamento degli uffici dirigenziali”, che purché a costo zero può essere fatta con semplice decreto ministeriale e senza discuterne in parlamento, come infatti è avvenuto. Già ridotte dalla precedente e recente controriforma, le Soprintendenze vengono così ulteriormente ridotte a 39, e si dovranno occupare di tutto, dai parchi archeologici ai beni storico-architettonici, dal patrimonio artistico-museale alla sua “valorizzazione” turistica. Con un personale, già falcidiato dai tagli degli ultimi governi, ancor più ridotto all'osso e con una perdita verticale di competenze e specializzazione dei dirigenti.

Effetti devastanti dello “sblocca Italia” e della legge Madia
Ma ciò non basta a far capire la portata distruttiva di questo provvedimento, che in apparenza sembra solo un atto burocratico-organizzativo, se non lo si incrocia con alcune norme micidiali contenute in altri provvedimenti già adottati precedentemente dal governo, come il decreto “sblocca Italia” e la legge Madia sulla “riforma” della pubblica amministrazione: il primo ha stabilito infatti il principio del “silenzio-assenso”, per cui le amministrazioni pubbliche hanno un tempo prefissato per concedere o no licenze edilizie, permessi di ristrutturazione, scavi e opere edilizie, stradali e ferroviarie, pubbliche o private che siano, in prossimità di siti archeologici, paesaggistici, ecc.
La seconda, all'articolo 2, recepisce tale obbligo per la pubblica amministrazione e lo fissa in 60 giorni, trascorsi i quali la richiesta si intende tacitamente accettata e i lavori possono partire: una norma palesemente anticostituzionale ai sensi dell'articolo 9 della Carta e di altre leggi a tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, come hanno denunciato il 10 agosto scorso, in un ignorato appello al presidente Mattarella a non firmare la legge Madia, l'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis e diversi giuristi costituzionalisti come Azzariti, Carlassare, Pace, Neppi Modona, Lucarelli, Maddalena e Zagrebelsky.
Oltre a ciò la legge Madia prevede, all'articolo 8, la “confluenza nell'Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato”, con l'attribuzione ai prefetti delle “responsabilità dell'erogazione dei servizi ai cittadini”, delle “funzioni di direzione e coordinamento dei dirigenti” di tali uffici, nonché “l'attribuzione allo stesso (prefetto, ndr) di poteri sostitutivi”. Il che significa che le nuove Soprintendenze accorpate, oltreché ridotte e dequalificate, perdono anche la loro autonomia e passano alle dipendenze dirette del governo, che in ultima istanza può sostituirsi ad esse e decidere al posto loro per i più svariati motivi. Gli archeologi perdono qualsiasi autonomia e per di più vengono militarizzati ed equiparati ai poliziotti. Come se non bastasse, dal nuovo Codice degli appalti sono sparite le norme sull'“archeologia preventiva”, che finora consentivano alle Soprintendenze la sorveglianza continua (svolta da un esercito di precari, pagati 5-6 euro l'ora dalle stesse ditte appaltatrici) dei lavori effettuati in zone di previsto interesse archeologico, per individuare e mettere in salvo eventuali reperti.

Un disegno liberista e privatizzatore
Tutto ciò si inserisce in un quadro generale in cui, a fronte del patrimonio storico-culturale più vasto al mondo (49 siti Unesco, 423 musei e monumenti statali, altri 4000 musei e monumenti di enti locali e privati e più di 50 mila beni archeologici e architettonici vincolati), il bilancio del Mibact è sceso dai 2,7 miliardi di euro del 2001 a 1,5 miliardi nel 2015 (meno dello 0,2% del bilancio statale), quando quello francese è di 4 miliardi e la media europea è dell'1%! Mentre il personale, come in tutto il pubblico impiego, è sottoposto a un rigido blocco del turn-over (l'età media supera i 55 anni) e al blocco dei contatti che dura da 7 anni. E date le sempre più ridotte piante organiche non riesce a far fronte all'immensa mole di lavoro richiesta, nonostante il massiccio ricorso a straordinari (pagati fra l'altro in ritardo) e rinvii delle ferie. E per di più è criminalizzato dal governo e dai mass-media di regime se tenta di far valere i suoi legittimi diritti sindacali, come è accaduto per delle assemblee al Colosseo e a Pompei.
Non occorre allora essere esperti del settore per capire come l'accorpamento e la riduzione delle Soprintendenze, con la conseguente dequalificazione e ulteriore impoverimento in uomini e finanziamenti, la loro subordinazione alle dirette dipendenze del governo tramite i prefetti come accadeva durante il fascismo (con una legge del 1923 che istituiva le Soprintendenze uniche, poi modificata nel 1939 perché non aveva funzionato), la clausola del “silenzio-assenso”, i massicci tagli al bilancio e al personale, tra l'altro sempre più precarizzato e sottopagato, facciano tutti parte di un disegno organico di chiaro stampo liberista, per demolire sistematicamente tutti gli argini che difendevano in qualche modo il patrimonio storico-culturale pubblico, e metterlo alla mercé della speculazione privata e del mercato capitalista, interno e internazionale.
A rafforzare questo disegno vanno anche le altre decisioni del decreto Franceschini, come lo smembramento della Soprintendenza archeologica di Roma e la creazione dieci nuovi enti e musei autonomi di “rilevante interesse nazionale”, diretti da altrettanti manager scelti con un bando internazionale: come il Museo nazionale romano, il complesso monumentale della Pillotta a Parma, il Castello di Miramare a Trieste, i parchi archeologici di Ostia Antica, di Ercolano, dei Campi Flegrei e dell'Appia Antica.

La politica della “valorizzazione” di Franceschini
Perché creare questi nuovi parchi archeologici e musei a direzione manageriale, come era già stato fatto poco tempo fa con gli altri 20 musei dichiarati “di interesse nazionale” e alla cui direzione sono stati messi dei manager selezionati con bando internazionale? Perché questo consente a Franceschini e al suo cerchio magico di renziani di ferro al Mibact di sottrarre questi ricchi e appetitosi beni pubblici al controllo delle Soprintendenze (ancorché “riformate”) e metterli ancor più saldamente sotto il controllo del governo, con un'amministrazione di tipo privatistico, in vista di essere messi sul mercato come si sta già facendo con gli edifici e i terreni dello Stato. Così da dare anche un segnale agli investitori privati nazionali ed esteri che questi beni non sono più un bene di tutti, ma da considerarsi fonti di investimento e di profitto al pari di qualsiasi altra azienda commerciale privata.
Il tutto nel quadro della “valorizzazione”, leggi commercializzazione, tanto decantata da Franceschini, come ha ammesso sfacciatamente di fronte alle commissioni Cultura di Camera e Senato, spiegando che “il ministero viene ridisegnato a livello territoriale per rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione. Le nuove soprintendenze parleranno con voce unica a cittadini e imprese riducendo tempi e costi burocratici. La riorganizzazione prosegue nella strada di valorizzazione del patrimonio”.
Come poi si possano conciliare “valorizzazione” e “semplificazione” con la tutela dei beni pubblici, che sono per natura antitetici, il ministro tirapiedi di Renzi si guarda bene dallo spiegarlo. Il suo sporco gioco opportunista lo ha spiegato bene lo storico dell'arte e professore universitario Tomaso Montanari, recentemente dimessosi da Consiglio nazionale di Italia Nostra in segno di protesta contro la sua omologazione alla politica governativa della “valorizzazione” che tradisce lo spirito dello Statuto dell'associazione: “In privato – dice infatti il professore storico dell'arte in un articolo intitolato eloquentemente “La tutela sotto mobbing” - Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. Sembra ormai irrilevante capire se la seconda parte del discorso sia vera. La prima certamente lo è: perché è proprio questo il fine del mobbing, licenziare per sempre la tutela del nostro patrimonio culturale”.
 

3 febbraio 2016