Le misure del governo non contrastano la povertà, sono inefficaci e familiste
Il “reddito minimo” è un palliativo e discriminatorio
Verso lo smantellamento del residuo stato sociale
A fine gennaio il Consiglio dei Ministri ha dato via libera a tre disegni di legge delega. Uno di questi, su cui il governo ha accentuato di più l'enfasi, è stato quello sulle “norme relative al contrasto alla povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali” ribattezzato “Ddl povertà”, presentandolo come un mezzo per opporsi all'aggravarsi della situazione economica e dall'esigenza di riordinare le regole degli interventi di sostegno economico-sociale che prevedono nelle 20 regioni italiane altrettanti modelli diversi.
E' sotto gli occhi di tutti come siano sempre di più le persone in difficoltà economiche, e oramai non si tratta soltanto di disoccupati, che comunque in questi anni di forte crisi economica capitalistica sono esponenzialmente aumentati. Ci sono situazioni di particolare criticità familiare ma la vera novità rispetto al passato sono i lavoratori poveri, ovvero chi ha un reddito insufficiente a soddisfare i propri bisogni primari benché abbia un'occupazione o comunque un sostegno economico legato al lavoro. Le nuove tipologie di poveri sono costituite da lavoratori in cassa integrazione, in mobilità o comunque a stipendio ridotto, precari, par-time, da chi alterna periodi di lavoro ad altri di disoccupazione, lavoratori in nero o senza contratto e pagati con i voucher, false partite iva che sostanzialmente sono dipendenti mal pagati e senza diritti previdenziali.
Stando solamente ai dati Istat ci sono oltre 4 milioni di italiani “in stato di povertà assoluta”. Ciò significa che non possono permettersi l'acquisto di beni e servizi indispensabili per vivere, a questi vanno aggiunti 2 milioni e mezzo di persone in “povertà relativa”, che appartengono alle famiglie lontane dalla soglia rappresentata dalla spesa media degli italiani. “Dati da terzo mondo” è stato il commento dell'Unione dei Consumatori di fronte alle cifre sulla povertà che registrano un continuo aumento di anno in anno.
Le misure contenute nel DDL non possono in alcun modo incidere su questa situazione a partire dallo stanziamento destinato al contrasto della povertà. Seicento milioni di euro sono poco più di una goccia nel mare se rapportati alla gravità e all'estensione del fenomeno che, come rilevato dalle statistiche, riguarda ampie fasce della popolazione, in particolare nel Mezzogiorno e nelle aree metropolitane. E come vedremo non solo sono inefficaci ma rappresentano un ulteriore colpo al sistema degli “ammortizzatori sociali”, dell'assistenza e della previdenza pubblica.
Queste cifre basteranno per 280 mila famiglie e 550 mila bambini per un totale di poco superiore al milione, per ora destinate a chi ha almeno tre figli di cui uno minorenne. Una misura discriminatoria e dal forte carattere familista perché esclude a priori i singoli, le unioni di fatto, chi non ha figli o li ha maggiorenni e magari disoccupati. Dividendo la cifra messa a disposizione per quelli che dovrebbero usufruirne, salta fuori un aiuto ai poveri di 80 euro mensili a persona, 320 euro per una famiglia di 4 persone che secondo il ministro Poletti sarebbe sufficiente a permettere un'esistenza dignitosa.
Questo Ddl riprende una vecchia proposta del governo Letta, la SIA, Sostegno all'Inclusione Attiva. Difatti ne ricalca le impostazioni principali, a partire dall'“universalità selettiva”, ovvero dall'individuazione delle fasce più povere ed emarginate a cui elargire le sempre più scarse risorse finanziarie. Questo però è solo uno dei presupposti, a cui segue quello di mandare i figli a scuola e di accettare offerte di lavoro. Ma per lavoro s'intende la “progettazione personalizzata da parte di servizi competenti di Comuni e Ambiti territoriali con piena partecipazione dei beneficiari”. Che tradotto significa la disponibilità a lavorare gratuitamente o a bassissimo costo per le amministrazioni locali, una riproposizione dei vecchi lavori socialmente utili (LSU).
Il tutto si potrebbe ridurre all'ennesimo spot elettorale del nuovo duce Renzi (tra poco si svolgeranno le amministrative in oltre mille comuni). Purtroppo però assisteremo a ulteriori tagli ad altri diritti acquisiti, nonostante le rassicurazioni del ministro. Che quelle del governo siano menzogne lo dimostra l'annunciata creazione del “Fondo per la lotta alla povertà” che sarà finanziato proprio con i risparmi derivanti dal cosiddetto riordino che prevede anche lo scippo delle pensioni di reversibilità che abbiamo trattato sul precedente numero de il bolscevico.
A subire tagli non saranno solo le pensioni di reversibilità, ma anche gli assegni sociali, le integrazioni al minimo, le maggiorazioni sociali e gli assegni al nucleo familiare. Tutte le prestazioni sopraelencate diventeranno di natura assistenziale e saranno legate all’ISEE: il che significa in moltissimi casi perdere i requisiti per riscuotere tali prestazioni, in quanto l’ISEE misura la ricchezza non solo in base al reddito e al patrimonio del singolo individuo, ma di tutto il nucleo famigliare e include la casa, magari ottenuta con anni di sacrifici e conteggia i risparmi di una vita di lavoro. Si arriva al paradosso che da una parte si concede il contributo a chi ha almeno tre figli e dall'altra si riduce l'assegno familiare per chi ha più di un figlio.
Con una mano si dà una mancia ai poverissimi, con l'altra si taglia ulteriormente quel poco rimasto dello “stato sociale” conquistato nei decenni dal movimento operaio e dalle masse popolari del nostro Paese. “ Dietro questa misura c'è un idea di società”, ha detto Poletti. Certamente una società dove domina il liberismo capitalistico, dove tutto è privatizzato e liberalizzato e chi non è ricco si dovrà arrangiare da solo mentre per gli indigenti ci sarà l'elemosina dello Stato. Una società che si sposa benissimo con il reddito minimo e i sostenitori di quel sistema, tanto che il ministro non rigetta questa definizione affibbiata dai giornalisti al “Ddl povertà”.
Premesso che il PMLI è contrario, siamo stati facili profeti nel prevedere che la via italiana al reddito minimo avrebbe comunque portato a cifre irrisorie (80 euro) e nettamente più basse rispetto a quelle di altri paesi come Germania e Francia (4/500 euro) dove sistemi simili sono già in funzione.
2 marzo 2016