I risultati della consultazione sulla Carta della CGIL non ci convincono
I tre referendum su punti specifici del Jobs Act sono inaccettabili
Senza la lotta di classe non si conquistano i diritti dei lavoratori

Il 21 marzo la Cgil ha approvato ufficialmente la Carta dei Diritti universali del Lavoro. Il Comitato direttivo riunitosi a Roma si è espresso quasi all'unanimità: nessun voto contrario e solamente sei astenuti. Evidentemente nel “parlamentino” di Corso d'Italia, composto da circa 170 rappresentanti, erano tutti d'accordo o comunque chi aveva delle perplessità non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo e votare contro. Nel comunicato rilasciato dalla Cgil si riportano anche i dati scaturiti dalle assemblee dove i lavoratori hanno discusso ed espresso il parere sui due quesiti posti dal sindacato: il primo riguardo all'approvazione della Carta e il secondo per quanto concerne il mandato al comitato direttivo della Cgil di definire quesiti referendari utili a sostenere il percorso per la trasformazione in legge.
Che i risultati fossero favorevoli era scontato: tutto il gruppo dirigente guidato dalla Camusso ne aveva fatto una bandiera, così come erano favorevoli tutte le strutture, le componenti o aree che dir si voglia, compresa Democrazia e Lavoro di Rinaldini e Nicolosi, la Fiom e tutte le categorie. Unica voce contraria Il sindacato è un'altra cosa, la componente di minoranza un tempo guidata da Cremaschi e adesso da Sergio Bellavita. Un giudizio critico comunque molto ambiguo, che bocciava la Carta senza tuttavia denunciare fino in fondo la trasformazione della Cgil in sindacato istituzionale e neocorporativo, lasciando i lavoratori liberi di esprimersi anziché invitarli a dare battaglia e a contestare la Carta proposta ed elaborata dalla Segreteria e da un gruppo di giuslavoristi.
Nonostante questa premessa i risultati che sono stati presentati lasciano alquanto perplessi. Sulla consultazione si sono espressi col voto 1.466.697 iscritte ed iscritti alla Cgil, facendo registrare una larghissima maggioranza di favorevoli: il 98,49% per quanto riguarda l’approvazione della Carta ed il 93,59% per quanto concerne il mandato ad indire referendum in materia. In un paio di mesi si sono svolte 41.705 assemblee, “uno sforzo politico ed organizzativo senza precedenti -recita il comunicato- un grande fatto di democrazia e partecipazione che conferma il radicamento senza eguali del sindacato confederale nella società italiana”. Ricordiamo però che la Cgil supera di gran lunga i 5 milioni d'iscritti, quindi poco più di uno su quattro ha potuto esprimere il proprio parere. Su quasi un milione e mezzo di voti i No alla proposta del nuovo statuto sono stati 5529, lo 0,38%, gli astenuti l'1,13%, percentuali addirittura inferiori a quelli che si sono opposti ad eventuali referendum sui temi sollevati dal Jobs Act. Numeri davvero bassi per pensare che ci sia stata una benché minima discussione sui luoghi di lavoro, come del resto non c'è stata nei direttivi provinciali e di categoria. Le critiche di chi era contrario apparse su alcune riviste digitali e blog di RSU di grandi aziende o di gruppi di lavoratori, parlano di assemblee monocorde, monopolizzate dai funzionari sindacali che hanno presentato la Carta come una controffensiva per conquistare nuovi diritti e accusato i critici di non voler difendere i nuovi lavoratori atipici.
Noi marxisti-leninisti invece ribadiamo il nostro giudizio negativo non solo sul metodo e sul percorso scelto dalla Cgil, ben lontano dall'essere democratico, ma anche nel merito delle questioni sollevate dalla Carta. Questa viene presentata come una innovazione necessaria per estendere i diritti quanto invece la Carta non fa altro che accettare tutte le forme contrattuali precarie che sono state introdotte nel mondo del lavoro negli ultimi 25 anni, cercando solo di limitarne i danni. L'altro aspetto, per molti versi anche più grave, è la definitiva accettazione da parte della Cgil, anche sul piano formale e legislativo, del sindacato istituzionale e cogestionario rivendicando l'applicazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione. Si sposa in sostanza il modello della Cisl, dell'Ugl, ma in definitiva di Marchionne e di Renzi e delle loro relazioni industriali e sindacali di stampo mussoliniano. Un sindacato che non ha come proprio obiettivo quello di rappresentare gli interessi dei lavoratori, bensì quello di contribuire ad assicurare la massima produttività al capitalismo italiano, ritagliandosi a tutti gli effetti un ruolo riconosciuto e certificato nelle istituzioni borghesi.
Nella stessa riunione sono stati presentati anche tre referendum per i quali partirà dal 9 aprile la raccolta delle firme. Come era stato già anticipato non si tratta di abrogare il Jobs Act ma solo alcuni suoi aspetti, seppur importanti. I referendum proposti sono quelli per eliminare i voucher, per reintrodurre la responsabilità per le ditte appaltatrici al pari di quelle in sub-appalto, per l'eliminazione dell'attuale norma che regola la reintegra del lavoratore licenziato senza giusta causa (l'ex articolo 18). Referendum a sostegno della proposta di legge popolare, la Carta appunto, che dovrebbe essere approvata dal parlamento nero del regime neofascista, lo stesso che ha votato a larga maggioranza il Jobs Act del nuovo duce Renzi. Un percorso al tempo stesso inaccettabile e perdente.
Il parlamento borghese italianonella sua storia non ha mai recepito e fatto propria una legge d'iniziativa popolare, pur essendo previsto dalla Costituzione. Riguardo ai referendum proposti in questa maniera è facile prevederne il fallimento. Senza la mobilitazione dei lavoratori, delle masse e la lotta di classe non si conquistano nuovi diritti né se ne riconquistano di vecchi, i referendum da soli non portano da nessuna parte. Serve una battaglia forte e decisa contro la politica economica e sociale del governo Renzi, estendere la lotta contro la “riforma” pensionistica della Fornero che è partita solo adesso con 4 anni di ritardo, rigettare il “nuovo” modello contrattuale che cancella il contratto nazionale e ammette aumenti salariali soltanto legati alla produttività aziendale. Inseriti in un contesto del genere allora sì, i referendum possono rivelarsi un valido strumento di lotta, mettendo però nel mirino tutto l'impianto del Jobs Act e chiedendone la completa abrogazione, e non solo alcuni singoli articoli.
 
 
 

6 aprile 2016