Sui tre referendum e sulla proposta di legge di iniziativa popolare sulla Carta dei diritti promossi dalla Cgil
“La scelta referendaria, a carattere eccezionale e straordinario, è coerente ed è unicamente finalizzata al sostegno della Proposta di Legge di iniziativa popolare che la CGIL avanza con la Carta dei diritti, che è e rimane il cuore e la finalità dell’iniziativa decisa dalla CGIL”
. Potremmo partire da queste affermazioni, contenute nel documento conclusivo del Comitato Direttivo della Cgil approvato il 21 marzo a Roma, per fare delle considerazioni sulla raccolta delle firme iniziata sabato 9 aprile e che durerà fino a venerdì 8 luglio per quanto riguarda i quesiti referendari di modifica del Jobs Act e fino a sabato 8 ottobre per ciò che concerne la “Carta dei diritti universali del lavoro”. Le dichiarazioni dei vertici sindacali sono chiare: lo sforzo della Cgil è tutto proteso a far approvare una legge che recepisca la “Carta”, mentre i referendum sono subordinati a questo.
Un'impostazione inaccettabile, anzitutto perchè la Carta dei diritti del lavoro è dannosa e controproducente per i lavoratori. Cercheremo comunque in questo articolo di fare delle riflessioni che ci aiutino a capire e a distinguere tra le varie questioni che vengono poste sul tappeto.
Sì ai tre quesiti referendari
Adesso i quesiti ce li ritroviamo davanti e dobbiamo scegliere, non possiamo girarci dall'altra parte. Quindi possiamo firmare quando nelle piazze troviamo i punti di raccolta organizzati dalla Cgil, pur non condividendone le motivazioni e le argomentazioni. Questo non è in contraddizione con i nostri giudizi precedenti perché anche il PMLI è per l'abolizione dei voucher, per la reintroduzione dell'articolo 18 per i neoassunti, per estendere la responsabilità delle ditte appaltatrici anche su appalti e subappalti, che sono oggetto dei tre referendum proposti dalla Cgil. Nel caso i referendum si tenessero davvero il PMLI sarebbe schierato senza esitazione per il Sì, impegnandosi direttamente per abrogare i tre punti specifici del Jobs Act anche se avrebbe preferito un quesito referendario che ne chiedeva la totale cancellazione. Non possiamo certo stare con chi lo difende; da quella parte ci sta chi ha fortemente voluto il Jobs Act, il nuovo duce Renzi e la maggioranza del suo partito, il PD, assieme a chi lo avrebbe voluto ancor più punitivo verso i lavoratori: i vari Brunetta, Berlusconi, Alfano e simili.
No alla proposta di legge di iniziativa popolare
Diverso è il discorso riguardo alla proposta di legge di iniziativa popolare che recepisce il testo della Carta dei diritti del lavoro: in questo caso non possiamo assolutamente firmare e ribadiamo il nostro giudizio critico. La Carta, ben lungi dall'essere un nuovo Statuto dei Lavoratori che estende le tutele come viene presentata, si adegua e prende atto della precarizzazione del rapporto di lavoro e delle nuove relazioni industriali di tipo mussoliniano. Non combatte apertamente il precariato ma cerca solo di contenerlo e di renderlo meno indigesto ai lavoratori. Ma c'è molto di più.
La richiesta a gran voce di attuare l'articolo 39 della Costituzione è un palese tentativo dei sindacati di vedersi assegnato un ruolo istituzionale, diventare parte integrante dello Stato, compensando in questo modo la perdita di autorevolezza avuta in questi ultimi tempi. Per 70 anni questo articolo costituzionale non è mai stato attuato proprio per l'opposizione dei sindacati e in primis della Cgil, perché ne avrebbe minato l'autonomia e avrebbe fatto da freno allo sviluppo della lotta di classe. Con l'istituzionalizzazione e burocratizzazione dei sindacati la CGIL tradisce lo scopo per cui i sindacati sono nati, ovvero rappresentare gli interessi dei lavoratori, allontanandosi definitivamente dalla lotta di classe per avvicinarsi al modello corporativo simile a quello fascista, a braccetto ormai con banchieri e industriali. A questo si aggiunge, nel progetto della Carta dei diritti universali del lavoro, la vera e propria truffa della partecipazione e cogestione nelle aziende, in attuazione dell’articolo 46 della Costituzione. Che comporta la subordinazione dei propri interessi di classe a quelli della borghesia, un vero e proprio fumo negli occhi per i lavoratori e una resa davanti ai padroni. Chi vuole approfondire la questione può andare a leggersi il Documento della Commissione di massa del CC del PMLI pubblicato sul numero 9/2016 del Bolscevico
e i successivi articoli di critica alla Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil.
Tirando le somme ribadiamo che le modalità con cui siamo arrivati alla raccolta di firme non sono condivise dal PMLI, tanto più l'interpretazione data ai referendum, di sostegno alla proposta di legge, non ci trova d'accordo; tuttavia questo non impedisce, giunti a questo punto, ai marxisti-leninisti di firmare. Di fronte all'effettivo svolgimento dei referendum il PMLI non avrebbe dubbi: pur partendo dalle proprie posizioni metterebbe in secondo piano le tante questioni che ci dividono e farebbe fronte unito con la Cgil e con tutti coloro che vogliono abrogare, seppur parzialmente, il Jobs Act. Nessuna firma invece a sostegno della proposta di legge d'iniziativa popolare anche se questa sembra di difficile attuazione stando l'attuale composizione del parlamento, che sarà ancora più nero dopo eventuali controriforme elettorali e costituzionali. In ogni caso non possiamo appoggiare la Carta dei diritti universali del lavoro perché essa non riflette gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, è invece una proposta neocorporativa e cogestionaria funzionale al capitalismo e che trasforma i sindacati in istituzioni dello Stato borghese.
Riguardo ai referendum ribadiamo che la posizione dei marxisti-leninisti è legata al tipo di quesito, in base a questo decidono per il Si, il No o l'astensione, facendo la scelta che più si avvicina agli interessi dei lavoratori e delle masse popolari. Rimaniamo però convinti che i diritti sociali, collettivi e individuali si conquistano con la lotta di classe che non può essere sostituita da quella referendaria. Quando su un determinato tema si attiva una forte mobilitazione, da cui scaturiscono grandi manifestazioni di massa, forme di lotta decise, estese e durature, allora anche il referendum, di conseguenza, può rivelarsi uno strumento valido e vincente in grado di ottenere dei risultati. Altrimenti diventa un surrogato della lotta di classe e della mobilitazione popolare, che alimenta illusioni ma è destinato fatalmente all'insuccesso.
Facciamo qualche esempio. Prendiamo la lotta che si sviluppò nei primi anni duemila contro il governo Berlusconi quando voleva eliminare l'articolo 18 per i neoassunti (come ha fatto Renzi con il Jobs Act). Una lunga serie di scioperi, manifestazioni, iniziative a tutti i livelli, da parte dei lavoratori con il coinvolgimento degli studenti e dei pensionati pervasero tutta Italia, e culminarono nella più grande manifestazione di piazza mai vista nel nostro Paese, quella del 23 marzo 2002 con 3 milioni di persone a Roma organizzata dalla Cgil. In seguito vi fu anche un referendum per estendere l'articolo 18 alle piccole aziende che non raggiunse il quorum (nonostante 11 milioni di si) ma le poderose dimostrazioni spinsero lo stesso il neoduce Berlusconi a più miti consigli: non se la sentì di continuare a sfidare i lavoratori, l'opposizione sociale, la stessa Cgil e l'articolo 18 non fu toccato.
Nel caso del Jobs Act invece la Cgil ha perso tempo prezioso, illudendosi che l'inconcludente minoranza del PD frenasse i piani di Renzi o che il parlamento nero apportasse delle modifiche al Jobs Act. Era già stato emanato l'apposito Decreto Legge quando fu deciso l'inizio della mobilitazione, e in pratica era già stato approvato dalle Camere quando ci furono le prime iniziative nazionali. Nonostante la disponibilità dei lavoratori a lottare la Cgil, affiancata dalla Uil, non proseguì nella lotta come aveva promesso e quello che doveva essere l'inizio, fu la fine prematura della mobilitazione. Evidentemente non c'era la volontà di radicalizzare la lotta, la Camusso e i vertici sindacali hanno preferito evitare lo scontro frontale con il governo che a quel punto, vista l'intransigenza e l'arroganza di Renzi, era inevitabile se si voleva veramente fermare il Jobs Act, l'eliminazione dell'articolo 18 e il sostanziale depotenziamento dello Statuto dei lavoratori. Di fronte a questo atteggiamento il PMLI ha giustamente dato indicazione ai lavoratori di votare no alla consultazione promossa dalla Cgil che chiedeva il mandato a promuovere i referendum. Non potevamo essere d'accordo con chi preferiva abbandonare la strada della lotta di piazza per abbracciare quella referendaria, oltretutto chiedendo abrogazioni parziali e non totali del Jobs Act.
25 maggio 2016