Trattativa governo-sindacati
No alla flessibilità in uscita per la pensione e al prestito bancario
Dopo un lungo periodo in cui il governo del nuovo duce Renzi ha ignorato sistematicamente i sindacati, il 24 maggio scorso il ministro del lavoro Poletti si è incontrato con i rappresentanti di Cgil-Cisl-Uil. Al centro del confronto le pensioni e le politiche del lavoro. Tante dichiarazioni, impegni, rivendicazioni ma alla fine la montagna ha partorito il topolino. Il governo alla fine non si è impegnato su niente di specifico e comunque metterà a disposizione di eventuali modifiche della legge Fornero “risorse limitate”, il che significa che non si andrà al di là di qualche lieve correzione. Flessibilità in uscita, Ape (anticipo pensionistico), lavoratori precoci erano i temi all'ordine del giorno sul tema delle pensioni ma sostanzialmente si è trattato solo dei primi due temi e in modo superficiale.
Dobbiamo dire che da alcuni mesi il pressing dei sindacati confederali si è fatto via via più stringente, anche se tutto ciò è avvenuto fuori tempo massimo. Quando l'allora governo Monti portò a termine la demolizione del sistema previdenziale basato sul retributivo e innalzò l'età pensionabile, attraverso la controriforma Fornero (era il 2011!), la reazione fu molto blanda. Comunque, come si dice, meglio tardi che mai. Adesso però che sono venuti al pettine i nodi degli esodati, le penalizzazioni e via discorrendo anche la Camusso, Furlan e Barbagallo hanno deciso di darsi una smossa e le mobilitazioni di pensionati e lavoratori si sono via via intensificate, fino all'ultima manifestazione nazionale del 19 maggio a Roma.
Ricordiamo in sintesi che la legge Fornero ha innalzato l'età pensionistica di uomini e donne, stabilendo i requisiti per la “pensione di vecchiaia” (in base all’età anagrafica): minimo 20 anni di contribuzione e 66 anni di età per donne del pubblico impiego e uomini (pubblico e privato), 62 anni per donne del settore privato (poi 66 anni e 3 mesi nel 2018), 63 anni e 6 mesi per donne lavoratrici autonome (che diventeranno gradualmente 66 anni e 3 mesi nel 2018). Inoltre abolisce la “pensione di anzianità” (in base al numero di anni di lavoro) sostituita dalla “pensione anticipata”: oggi bisogna aver lavorato 41 anni e 3 mesi per le donne, 42 anni e 3 mesi per gli uomini. Il tutto legato all'aspettativa di vita tanto che di qui al 2020 è previsto di superare 44 anni di contributi e 67 di età indistintamente per uomini e donne.
Ma non è finita qui. Chi ha i contributi però non ha raggiunto i 62 anni deve subire una penalizzazione dell'1% per i primi due anni, del 2% per il resto, penalità momentaneamente sospesa ma che sarà di nuovo attiva a partire dal 1° gennaio 2018. Se, per esempio, un lavoratore ha raggiunto i contributi ma ha “solo” 58 anni gli viene decurtata la pensione del 6% (2+2 per due anni più 1+1per gli altri due, uguale -6%) e si badi bene, questa trattenuta non sparirà al raggiungimento dell'età ma varrà per tutta la vita. Questo ha creato migliaia di lavoratori cosiddetti precoci costretti a raggiungere un'anzianità contributiva superiore ai previsti 42 anni per non vedersi tagliata la pensione. Si tratta sopratutto dei nati negli anni '50 e '60 assunti prima di aver compiuto i 18 anni (in passato eventualità molto comune) con bassa scolarizzazione e prevalentemente impiegati nei lavori più logoranti e faticosi.
Per ora di questo che rappresenta uno dei principali nodi non si è parlato, si è accennato invece della possibilità di uscire anticipatamente rispetto a quanto previsto finora dalla vigente legge Fornero riguardo alla pensione di vecchiaia. In pochi anni con due “riforme” dei governi Dini e Monti, la soglia è aumentata di 7 anni per gli uomini e ben 12 per le donne, creando il blocco dell'entrata dei giovani nel mondo del lavoro e penalizzando sopratutto le lavoratrici, costrette durante la loro vita a un percorso lavorativo discontinuo a causa dei figli e della cura e assistenza ai famigliari che in Italia, da sempre carente di servizi sociali, sono accollati sulle spalle delle masse femminili.
Il governo ha quindi ventilato la possibilità di andare in pensione prima dei 67 anni, a partire dai 63. Una proposta irricevibile perché anche in questo caso la cosiddetta flessibilità in uscita prevede pesanti penalizzazioni. Il funzionamento, in buona sostanza, sarebbe molto simile a quello dei mutui con durata di 5 o di 10 anni: al lavoratore verrebbe erogato l'assegno pensionistico e la somma, una volta raggiunti i requisiti, verrebbe restituita a rate con penalizzazione media annua del 4 per cento. Un'operazione che non costerebbe quasi nulla al governo perché sarebbero le banche a dare i soldi (ma alcuni ministri non sono d'accordo) e anche a guadagnarci con gli interessi pagati dai lavoratori. Ci sono poi ulteriori alternative per fare entrare in gioco assicurazioni private e datori di lavoro.
Accanto a questa proposta c'è anche quella portata avanti dall'onorevole del PD Damiano. Anche se non è stato oggetto di trattativa diretta nell'incontro tra Poletti e Cgil,Cisl e Uil, tale progetto troverebbe i favori del sindacato. E' basato su un sistema di premiazione o di penalità a seconda dell'età di uscita. Il meccanismo è semplice: si può anticipare l'uscita sino a 62 anni di età a condizione che ci siano 35 anni di contributi accettando però un taglio dell'8%; dall'altro lato, se si allontana l'uscita la pensione cresce sino all'8% se si accetta di andare a 70 anni, ma per prendere una pensione decente sarà proprio quest'ultima l'età in cui saremo costretti ad andare in pensione. Il che avverrà già con le attuali regole, come hanno amaramente appreso tutti coloro che hanno ricevuto dall'Inps la famigerata “busta arancione”.
La risposta dei vertici sindacali di fronte alla disponibilità del governo a mettere mano alle pensioni, e sopratutto l'apertura di un canale di dialogo che potrebbe prefigurare un ritorno, seppur parziale, alla concertazione, è stata molto favorevole, e si va dai toni entusiasti della Furlan (Cisl) fino al moderato ottimismo della Camusso. Noi non ci vediamo niente di positivo perché ogni minimo abbassamento dell'età pensionabile comporta pesanti penalizzazioni per i lavoratori e l'ingresso delle banche e dei privati nella gestione dell'anticipo. Appare più come un'operazione propagandistica, uno spot elettorale per il governo Renzi. Non a caso si parla insistentemente di dare gli 80 euro ai pensionati al minimo, ma dall'altra parte non si vuole istituire un meccanismo serio di rivalutazione delle pensioni, l'unico in grado di salvaguardarne il potere d'acquisto.
I marxisti-leninisti si battono per ripristinare l'età pensionabile a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne e ripristinare la pensione di anzianità con 35 anni di lavoro. Sappiamo bene che i sindacati confederali non faranno propri questi obiettivi, ma quanto meno dovrebbero chiedere l'abolizione della controriforma Fornero, che ha fatto risparmiare al governo (calcoli Inps) 80 miliardi di euro rubati dalle tasche dei lavoratori e futuri pensionati, rivendicare la pienezza dell'assegno pensionistico al raggiungimento degli anni di contribuzione indipendentemente dall'età respingendo qualsiasi penalizzazione, oltre a chiedere un consistente aumento per le pensioni, specie quelle sotto i mille euro, percepite dal 42,5% dei pensionati, che ammontano a 6 milioni e mezzo.
1 giugno 2016