Lo certifica il rapporto Isfol-Plus che Renzi ha fatto uscire con 6 mesi di ritardo
Con il Jobs Act aumentano disoccupazione e famiglie dei lavoratori poveri
Il Jobs act e gli otto decreti attuativi imposti a colpi di fiducia nel corso del 2015 dal nuovo duce Renzi e dai suoi tirapiedi all'Economia e al Lavoro Padoan e Poletti che li hanno acclamati come un toccasana per il rilancio dell'economia e dell'occupazione, hanno proseguito la macelleria sociale, peggiore di quelle attuate da Berlusconi, Monti e Letta, che nel corso degli ultimi mesi hanno ridotto sul lastrico non solo i precari, i giovani e gli anziani con pensioni al minimo ma anche le famiglie dei lavoratori salariati che fortunatamente possono ancora contare su uno o due redditi da lavoro dipendente.
A certificarlo sono i dati contenuti nel “Rapporto di monitoraggio del mercato del lavoro 2015; l'Italia fra Jobs act ed Europa 2020” curato dal centro di ricerca Isfol-Plus (ente pubblico dello stesso ministero del Lavoro ndr) per conto della UE.
Un dossier di 300 pagine ricco di dati, statistiche e tabelle basati sui vari studi di settore, integrati con le ricerche dello Svimez, del Centro studi Adapt, dell'Inps, Istat e messi a confronto con la situazione degli altri Paesi europei, che fa letteralmente a pezzi le truffaldine teorizzazioni di Renzi e dei suoi ascari circa i benefici del Jobs act.
Forse per questo, il rapporto già pronto da dicembre scorso, è stato “congelato” per sei mesi dal governo ed è stato reso pubblico solo a metà giugno.
Dai dati emerge che ormai i nuclei familiari che non sono più in grado di far fronte a una spesa imprevista di 300 euro sono il 73 per cento del campione e il 36 per cento che ha questo plafond di spesa eccezionale comunque afferma di non potersi permettere una spesa necessaria aggiuntiva di 800 euro. Ma la cosa più drammatica è che questa volta non si tratta di poveri o di anziani con pensioni al minimo, ma di famiglie dove entrano uno o due redditi da lavoro vittime proprio del Jobs act che di fatto ha cancellato il contratto nazionale a favore dei cosiddetti contratti atipici con un abbassamento consistente della basa salariale così marcato da rendere povero anche chi un lavoro è riuscito in qualche modo a conservarlo.
Già il Cnel in un seminario del 2014 aveva segnalato che: “l’Italia presenta tassi di work in poverty maggiori della media europea e in aumento nel 2011”. Una previsione che il governo Renzi ha portato alle estreme conseguenze.
Guardando grafici e tabelle e pensando agli annunci di Renzi è indicativo l’istogramma relativo al tasso di occupati. L’Italia risulta terzultima sulla scala Eurostat – peggio fanno solo Ungheria e Malta – in quanto a popolazione occupata in età lavorativa ma soprattutto – insieme a Grecia e Spagna – ha una dinamica in calo dal 2011 al 2014.
In seguito all'approvazione del Jobs act i dati Isfol evidenziano un paio di trimestri – i primi due del 2015 – di ripresa dell’occupazione, ma appena dello zero virgola; tant'è che i ricercatori aggiungono che “è da vedere” se alla conclusione degli incentivi per il contratto unico a tutele crescenti rimarrà la “lieve propensione” a utilizzare il nuovo strumento, che comunque ha approfondito la «dualità del mercato del lavoro tra garantiti dai vecchi contratti a tempo indeterminato (con articolo 18) e nuovi assunti col Jobs act”. Insomma i lavoratori sono stati stritolati dalla crisi economica capitalistica, da una parte, e dal Jobs act, dall'altra.
I giovani sono i più penalizzati, da tutti i punti di vista, incluso la capacità di autonomia familiare e le scelte procreative. E anche per i bambini non si prevede un futuro migliore: l’abbandono scolastico nel 2014 è sempre oltre il 15%.
Infatti il rapporto evidenzia anche che: “Il tasso di disoccupazione è aumentato nel corso delle due fasi recessive di 6,6 punti percentuali, passando dal 6,1% del 2007 al 12,7% del 2014. La dinamica della crescita della disoccupazione delinea chiaramente le due fasi della crisi: nel primo biennio, 2008-2009, l’aumento della disoccupazione è stato contenuto, con un incremento inferiore ai due punti percentuali. Nel breve periodo di lieve ripresa della crescita economica, tra il 2010 e il 2011, la disoccupazione è rimasta stabile poco sopra l’8%, per poi aumentare di oltre 4 punti percentuali nel periodo 2011-2014.
Nella prima fase della crisi la crescita della disoccupazione è stata alimentata quasi esclusivamente dagli occupati che hanno perso il lavoro e dai disoccupati rimasti nella stessa condizione.
La crisi ha colpito prevalentemente i giovani: il tasso di disoccupazione in età compresa tra 15 e 24 anni è più che raddoppiato dal 2008 al 2014, passando dal 21,2% al 42,7% (Figura 3.17). La componente giovanile della popolazione è strutturalmente più esposta alle variazioni di congiuntura, sia nella fasi di crescita che in quelle di recessione.
Tale effetto è dovuto alla maggiore prevalenza tra i giovani di contratti flessibili, i primi ad essere interrotti in periodi di flessione della crescita”.
6 luglio 2016