Secondo dati Inps, Ocse e Istat
Fermi gli stipendi dei lavoratori italiani
Più della metà delle famiglie hanno ridotto nel 2015 la spesa per il cibo
Nonostante il governo cerchi di rappresentare la situazione economica italiana come una delle migliori a livello europeo, i dati che provengono da organismi nazionali e internazionali dimostrano l'esatto contrario. Non sono bastati i Twitter
, conferenze stampa, saluti di fine anno, né giornali, tv e altri mezzi d'informazione (con l'Unità, La Repubblica e i canali Rai in prima fila) che propagandano a spron battuto un'immagine dell'Italia in ripresa e con la crisi oramai alle spalle.
L' Ocse (L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) raggruppa 34 Paesi a regime capitalistico avanzato e il suo rapporto sull'economia e sul mercato del lavoro che analizza i dati relativi al 2015 ci dice che il differenziale tra la percentuale di occupati nel 2015 è ancora inferiore rispetto a quella del 2007. Questo sta a significare che quasi 10 anni dopo l'inizio della più grande crisi capitalistica degli ultimi decenni e una seppur debole ripresa, anche se non in tutti i 34 stati membri, non si è ancora raggiunto il livello pre-crisi con quasi 6 milioni di occupati in meno.
Questo è il quadro generale ma per quanto riguarda il nostro Paese i dati sono ancora più preoccupanti. Il nuovo duce Renzi e i suoi ministri si nascondono dietro la foglia di fico dei “leggeri miglioramenti” e dei giudizi positivi al Jobs Act contenuti nel rapporto, ma questi presunti miglioramenti ci sono stati ad inizio anno per i lauti sgravi fiscali sulle nuove assunzioni concessi ai padroni con la controriforma del mercato del lavoro, dopo il loro drastico ridimensionamento però è stato quasi annullato del tutto il dato positivo.
Nella nota del documento dedicata al nostro Paese si rileva come il tasso di occupazione per la popolazione tra i 15 e 74 anni ha ripreso a crescere dal primo trimestre 2015 per poi calare di nuovo e attestarsi al 49,4%, sottolineando come il dato italiano è il terzo più basso tra i Paesi appartenenti all’Organizzazione, dopo la Grecia e la Turchia, e dovrebbe restare inferiore al livello pre-crisi anche nel 2017. Il tasso di disoccupazione, aggiunge la nota, è sceso a 11,5 % dal picco del 12,8 % ma rimane di molto superiore alla media. l’Italia svetta in un'altra poco ambita classifica: è il terzo paese dell’Ocse per disoccupazione giovanile con un tasso che rimane al 40,3 % davanti solo a Spagna (48,3%) e Grecia (49,8%).
Altra nota dolente sono il peso dei salari: “la crescita dei salari in termini reali è debole dal 2007 evidenziando il rischio di una stagnazione salariale duratura”. Qui non si scopre niente di nuovo, lo sanno benissimo i lavoratori italiani che la loro busta paga è sempre più leggera. Tutte le statistiche; Ocse, Eurostat, Fondazioni private danno gli stipendi italiani tra i più bassi d'Europa ed anche quelli con una maggiore disuguaglianza. I salari d'ingresso sono i più bassi in assoluto mentre mano a mano che sale la professionalità e l'anzianità si rientra nella media. Quando invece si parla di manager e dirigenti sia pubblici sia privati l'Italia balza al primo posto: in media un colletto bianco nostrano guadagna il 33% in più rispetto a un suo omologo europeo.
Operai e impiegati invece hanno subito una drastica perdita di potere d'acquisto tanto che una larga fascia di popolazione ha dovuto ridurre le voci di spesa essenziali come quelle sanitarie mentre oltre la metà delle famiglie nel 2015 ha ridotto persino la spesa alimentare. A questa situazione hanno contribuito il blocco dei salari dei dipendenti pubblici (tra l'altro giudicato incostituzionale dalla Consulta), il mancato rinnovo dei contratti a oltre 12 milioni di lavoratori e il peso del “cuneo fiscale”. Le imposte che gravano sul lavoro sono sopra la media e in aumento ma mentre i padroni usufruiscono continuamente di sempre maggiori sgravi e agevolazioni in Italia abbiamo la pressione fiscale più elevata sui lavoratori a bassa retribuzione.
La miseria degli stipendi italiani è certificata anche dall'Istat. L'istituto nazionale di statistica ha infatti rilevato che la crescita delle retribuzioni contrattuali orarie nel primo trimestre del 2016 è stata la più bassa mai registrata dall’inizio delle serie storiche e cioè da 34 anni a questa parte. Si dice anche del potere d'acquisto delle famiglie cresciuto del'1%, un dato apparentemente in contraddizione se non fosse che ciò è dovuto alla drastica riduzione dell'inflazione che riflette il blocco dei consumi che di fatto rimangono invariati. Grandi sono le differenze tra regione e regione. La Calabria risulta essere la regione con la spesa mensile familiare più bassa, 1.729 euro, mentre Lombardia, Trentino–Alto Adige ed Emilia–Romagna sono le regioni con la spesa mensile più elevata, tutte e tre attorno ai 3mila euro.
Nel 2015 l'Istat stima che le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta siano pari a 1 milione e 582 mila e gli individui a 4 milioni e 598 mila (il numero più alto dal 2005 a oggi). Questo andamento nel corso dell’ultimo anno si deve principalmente all’aumento della condizione di povertà assoluta tra le famiglie con 4 componenti (da 6,7 del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con 2 figli (da 5,9 a 8,6%) e tra le famiglie di soli stranieri (da 23,4 a 28,3%). Segnali di peggioramento si registrano anche tra le famiglie che risiedono nei comuni centro di area metropolitana (l’incidenza aumenta da 5,3 del 2014 a 7,2%) e tra quelle con persona di riferimento tra i 45 e i 54 anni di età (da 6,0 a 7,5%).
Si amplia l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata (da 5,2 del 2014 a 6,1%), in particolare se operaio (da 9,7 a 11,7%). Rimane contenuta tra le famiglie con persona di riferimento dirigente, quadro e impiegato (1,9%) e ritirata dal lavoro (3,8%). A livello regionale al Nord la povertà aumenta sopratutto tra le famiglie di stranieri mentre al Sud tra le famiglie numerose e quelle con membri in cerca di occupazione.
Anche i dati dell'Inps sul 2015 vanno a rafforzare questo quadro tutt'altro che roseo. Nonostante adesso si divida l'anno per 12 mesi e non più 13 (escludendo la tredicesima) i pensionati che percepiscono un assegno lordo al di sotto dei mille euro risultano il 38%, il larga maggioranza donne. Assegni che Tito Boeri, il presidente dell'ente, definisce “inadeguati”. Il rapporto registra 37mila pensionati in meno, un dato certamente negativo perché vuol dire altrettante assunzioni di nuovi lavoratori in meno, “grazie” alla legge Fornero e al brusco innalzamento dell'età pensionabile.
Una situazione sempre più insostenibile per i lavoratori e le masse popolari, costretti a portare sulle proprie spalle tutto il peso della crisi capitalistica. Di fronte a tutto questo diventa sempre più inaccettabile l'immobilismo e la passività dei sindacati, in special modo di quelli più rappresentativi come Cgil, Cisl e Uil.
20 luglio 2016