Gli effetti del Jobs Act
Meno 33% di contratti a tempo indeterminato e più 28% di licenziamenti rispetto al 2015
Boom di voucher (più 36% nel 2016)
Mese dopo mese si va sgonfiando il bluff renziano sull'occupazione “in crescita” grazie alla politica di incentivi del governo: i dati appena diffusi dall'Osservatorio sul precariato dell'Inps, relativi al periodo gennaio-agosto 2016, mostrano inequivocabilmente il completo fallimento del Jobs act, dopo la riduzione al 40% per quest'anno della decontribuzione da 8.000 euro per tre anni concessa alle imprese nel 2015 per i cosiddetti contratti “a tutele crescenti”. Vale a dire i ricchi incentivi per le assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato senza la tutela dell'articolo 18, che l'anno scorso hanno funzionato come un doping per il mercato del lavoro, ma i cui effetti sono già svaniti, lasciando anzi una situazione anche peggiore di quella precedente.
Non soltanto, infatti, quest'anno i nuovi contratti a tempo indeterminato sono crollati del 33% rispetto all'anno scorso, mentre invece stanno aumentando i contratti a termine, ma allo stesso tempo sono schizzati in alto di quasi altrettanto i licenziamenti per effetto dell'abolizione dell'articolo 18, e si registra un vero e proprio boom dei voucher, già quasi arrivati alla mostruosa soglia dei 100 milioni, con un aumento del 36 % rispetto al 2015. E questi allarmanti fenomeni appaiono chiaramente interconnessi, frutti avvelenati della stessa malapianta del renzismo.
Nel periodo gennaio-agosto i nuovi contratti a tempo indeterminato sono passati da 1.199.702 del 2015 a 805.168, con un crollo del 32,9%, e sono diminuiti del 7% anche rispetto al 2014, quando ancora il Jobs act non c'era. Viceversa le nuove assunzioni a termine sono aumentate del 2,5% rispetto al 2015, e del 5,5% rispetto al 2014. Rispetto all'anno scorso è comunque diminuito il totale dei nuovi rapporti di lavoro, con un saldo negativo di 350.832 unità, pari ad un secco -8,5%.
Già svanito l'effetto degli incentivi
Guardando il grafico pubblicato dall'Inps della variazione percentuale dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato rispetto al totale dei nuovi contratti, attivati o variati tra il settembre 2014 e l'agosto 2016, si può notare che da valori intorno al 30% di fine 2014 si passa di colpo al 39% del gennaio 2015 (gli effetti del Jobs act erano retrodatati fino ad inizio anno), e in crescendo si sale fino ad un picco del 44,1% nel marzo 2015, data di entrata in vigore del Jobs act, con un riassestamento intorno al 35% nei mesi successivi alla sfuriata iniziale. Per poi aumentare decisamente in autunno di nuovo oltre il 40% e culminare a fine anno in un picco di ben il 67%, dovuto alla corsa ad incassare gli incentivi da 8.000 euro per tre anni che scadevano il 31 dicembre 2015, e che sono costati la bellezza di 20 miliardi di mancate entrate per le casse pubbliche.
É sugli effetti di questa “corsa all'oro” di fine 2015, tra l'altro sapientemente manipolati e gonfiati sui media di regime, che Renzi ha basato la sua propaganda trionfalistica sui benefici miracolistici del Jobs act sull'occupazione, e in particolare su quella giovanile. Ma le bugie hanno sempre le gambe corte e il 2016 si è incaricato di svelarle, non appena è calato l'effetto dopante degli incentivi pubblici. Immediatamente, a partire da gennaio di quest'anno, i nuovi contratti a tempo indeterminato sono ritornati infatti al 35,4% rispetto al totale, per poi calare inesorabilmente mese per mese fino al 24,9% di agosto, un livello sensibilmente inferiore addirittura a quello del settembre 2014 (30,2%).
“No articolo 18, no contributi per chi assume a tempo indeterminato. Tolti gli ostacoli per assumere. Imprenditori, basta scuse”, aveva twittato Renzi a ottobre 2014 nell'annunciare il Jobs act. Ebbene, a distanza di due anni si è visto che gli imprenditori si sono intascati gli incentivi e la cancellazione dell'articolo 18, ma non hanno aumentato significativamente i posti di lavoro, tanto meno per i giovani. Si è trattato infatti per la maggior parte della stabilizzazione di contratti già esistenti, e riguardanti per lo più lavoratori ultracinquantenni bloccati al lavoro dalla legge Fornero. Stanno anzi riaumentando le false partite Iva: “Nel Jobs act abbiamo messo una riga forte tra lavoro autonomo e lavoro subordinato intervenendo su un'area grigia che prima era molto presente”, aveva sentenziato allora il ministro Poletti, ma secondo uno studio della Uil nel 2016 le partite Iva sono in aumento di almeno un 5,3%.
Licenziamenti e voucher, le vere “novità” del Jobs act
In compenso il Jobs act funziona eccome dal lato dei licenziamenti, che grazie all'abolizione dell'articolo 18 sono in netto aumento: nel periodo gennaio-agosto 2016 le cessazioni totali per i contratti a tempo indeterminato sono aumentate del 4,7% rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma tra queste, quelle dovute ai licenziamenti “per giusta causa o giustificato motivo soggettivo” (in pratica i licenziamenti “disciplinari” non soggetti a riassunzione, ma solo ad un indennizzo), sono passati da 36.048 del 2015 a 46.255 del 2016, pari ad un aumento di ben il 28,3%. Una evidente conseguenza delle nuove regole introdotte col Jobs act. Considerato nel biennio 2014-2016 l'aumento dei licenziamenti “per giusta causa” è addirittura del 31,2%, ma è chiaro che il grosso dei licenziamenti è concentrato nel periodo dopo l'entrata in vigore del Jobs act.
Un altro effetto perverso di questa legge neoliberista e padronale è quello dell'aumento esponenziale dei voucher, il buono lavorativo prepagato da 10 euro il cui uso è stato ulteriormente incoraggiato con la scusa di “far emergere il lavoro nero”, mentre si rivela essere una forma sempre più massiccia di legalizzazione del lavoro nero. Nei primi 8 mesi del 2016 il numero di voucher venduti è già arrivato quasi a quota 100 milioni (per l'esattezza 96.622.284), con un aumento del 35,9% rispetto allo stesso periodo del 2015.
Se si pensa che nello stesso periodo del 2014 di voucher ne erano stati venduti meno della metà (41,5 milioni), non ci vuol molto a concludere che il Jobs act ha agito da vero e proprio moltiplicatore del precariato e dello sfruttamento. E il fatto relativamente più “sorprendente” è che mentre l'aumento percentuale è più o meno omogeneo in tutto il territorio nazionale, in valore assoluto il ricorso più massiccio ai voucher non è come ci si potrebbe aspettare nelle regioni più povere del Mezzogiorno, bensì in quelle più ricche e sviluppate del Nord-Ovest e del Nord-Est, che da sole utilizzano il 60% di tutti i voucher venduti in Italia.
26 ottobre 2016