L'elezione a presidente Usa del fascista, razzista, misogino e miliardario Trump provoca un'ondata di proteste degli antifascisti e antirazzisti in decine di città
La destra dell'imperialismo americano riprende il potere
La politica antipopolare di Obama le ha aperto la strada
Renzi si congratula subito col nuovo presidente degli Usa

Martedì 8 novembre, con la vittoria elettorale del miliardario fascista, razzista, xenofobo e misogino Donald Trump, sulla potente, ambiziosa, intrallazzatrice e guerrafondaia Hillary Clinton, la destra dell'imperialismo americano si è ripresa il potere conquistato otto anni fa dalla “sinistra” con Barack Obama.
Ciononostante questo risultato non è dovuto ad un reale spostamento a destra dell'elettorato americano, come è stato interpretato dalla grande maggioranza dei commentatori politici e dei media, ma piuttosto al crollo delle illusioni elettorali e parlamentari nell'elettorato democratico, deluso dal fallimento della politica economica e sociale di Obama e giustamente diffidente nei confronti di una politicante di professione come la Clinton, rappresentante di quella grande finanza di Wall Street e delle grandi lobby economico-politiche responsabili della crisi in cui il Paese ancora si dibatte.
Non ha senso parlare di spostamento a destra quando a votare è andato solo il 55,6 % degli elettori iscritti nelle liste (che sono già solo una parte degli aventi diritto al voto, 142 milioni su 208). E tra l'altro fortemente in calo rispetto al 58,6% del 2012 e al 62,2% del 2008, anno del primo mandato di Obama. Il che conferma anche stavolta che il presidente Usa è stato eletto, a dir molto, da neanche un elettore su quattro. Anche se non c'è dubbio che Trump sia stato sostenuto come e più dei suoi predecessori repubblicani, dalle associazioni e organizzazioni suprematiste, fasciste, razziste, xenofobe e della destra religiosa, come il Klu Klux Klan, che abbondano il quel Paese.
Ma la sua vittoria non sarebbe stata possibile senza la mancata risposta della base democratica agli appelli di Obama, che nelle ultime settimane si era speso al massimo per sostenere la Clinton e presentarla come la sua erede politica, girando il Paese in lungo e in largo cercando di resuscitare invano nelle masse operaie, giovanili, femminili e di colore quello spirito e quelle speranze che lo avevano portato alla Casa Bianca nel 2008, ma che si erano già fortemente ridimensionate nelle elezioni del suo secondo mandato. Troppe sono state le sue promesse non mantenute negli otto anni della sua presidenza, per poter ancora abbindolare gli strati sociali che lo avevano votato per imprimere una svolta dopo gli anni bui dell'amministrazione Bush, delle “guerre infinite” e del disastro finanziario della Lehman Brothers, con la paurosa recessione che ha innescato.

Le mancate promesse di Obama
Allora il sistema imperialista americano lo aveva appoggiato, consegnando la Casa Bianca ad un rappresentante della sua “sinistra” e per giunta nero, per dare l'illusione di un deciso “cambiamento” rispetto all'esperienza fallimentare di Bush. Ma presto le sue promesse di cambiamento si sono rivelate un bluff: aveva promesso di tassare i super ricchi, ma sono aumentate invece le disuguaglianze. C'è stata una certa ripresa dell'economia, ma più che altro nel settore finanziario e dell'alta tecnologia, mentre è andato ulteriormente avanti il processo di deindustrializzazione, conseguenza di quella globalizzazione che proprio l'amministrazione Clinton aveva promosso promettendo un futuro di benessere per tutti.
Non a caso per Trump è stato decisivo strappare ai democratici la vittoria negli Stati “in bilico” della cosiddeta “rust belt” (cintura della ruggine), ossia gli Stati del Nord-Est, cuore industriale dell'America, più segnati dalla deindustrializzazione: la Pennsylvania, con le sue ex industrie siderurgiche, lo Iowa, I'Illinois e il Wisconsin, un tempo ricche di industrie alimentari ma anche aeronautiche, il West Virginia, piena di miniere di carbone chiuse, il Michigan e l'Indiana, (sedi di ex industrie automobilistiche), e l'Ohio, Stato industriale e agricolo oggi fortemente in declino. Rispetto al 2012 Trump è riuscito infatti a strappare ai democratici la Pennsylvania, l'Ohio, l'Iowa, il Michigan e il Wisconsin, assicurandosi così la vittoria.
Anche la timida e contraddittoria “riforma” sanitaria si è rivelata un fallimento, e anche nei confronti del problema dell'immigrazione Obama è stato tutt'altro che di manica larga, come lo accusava Trump, essendo arrivato ad espellere 2,5 milioni di immigrati irregolari, più di tutti i suoi predecessori. E mentre i giovani sono costretti a indebitarsi a vita per potersi pagare tasse universitarie sempre più abnormi, con sempre meno certezze di trovare lavoro una volta diplomati e laureati, non ci sono mai stati tanti neri uccisi brutalmente dalla polizia come durante la sua presidenza. Come le carceri americane non sono mai state piene di ispanici e neri (tre milioni di carcerati, uno ogni cento abitanti) come durante i suoi due mandati.

Il declino dell'imperialismo Usa
C'è da meravigliarsi allora se operai, giovani, donne, neri e ispanici non hanno risposto ai suoi appelli non andando a votare per la Clinton (che tra l'altro era stata sua strenua avversaria alle primarie del 2008), e se parte di questo elettorato è caduto invece nella trappola di Trump? Il quale molto furbescamente ha agitato davanti ai suoi occhi lo specchietto per le allodole del “cambiamento”, dell'”outsider” estraneo alle lobby e alle dinastie politiche, in contrapposizione ad una Clinton rappresentante di una famiglia di politicanti di professione, appoggiata dalla grande finanza e dalle lobby responsabili della crisi, tanto da aver speso un miliardo di dollari per la sua campagna elettorale, e per di più rivelatasi più volte bugiarda e messa sotto inchiesta dall'Fbi?
Per non parlare del gioco sporco fatto dal suo partito per escludere dalla corsa il suo avversario Bernie Sanders, gioco che le ha fatto vincere le primarie ma le ha anche alienato il voto di milioni di giovani. Con un'avversaria così Trump ha avuto buon gioco nel presentarsi come il “nuovo” rispetto al vecchio, scavalcando addirittura a sinistra Obama e la Clinton in fatto di demagogia e promesse di cambiamento e di lotta all'establishment.
L'elezione di Trump segna anche un passaggio che marca il declino dell'imperialismo Usa. Nonostante abbia iniziato il suo mandato col conferimento del premio Nobel per la pace e promesse di apertura ai popoli islamici e di far dimenticare l'era del guerrafondaio Bush, Obama ha fatto esattamente il contrario: ha ridotto le spese militari e il numero di truppe all'estero, ma ha aumentato nel contempo le spese complessive per la difesa (da 731 a 816 miliardi l'anno, compreso ricerca e investimenti), ha aumentato le missioni di bombardamento di aerei e droni, ha esteso lo spionaggio e ha moltiplicato i focolai di tensione e di guerra, in Medio Oriente, in Africa, in Europa dell'Est e nel Pacifico. Con esiti anche negativi per la superpotenza a stelle e strisce, in Ucraina e in Siria, arrivando a spingere verso l'avversario Putin ex alleati di ferro come il fascista Erdogan e il boia egiziano Al Sisi. Senza contare le tensioni con la Cina nell'area del Pacifico.
Oggi gli Usa non sono più la superpotenza egemone e incontrastata al mondo, come dopo l'89, ma devono fronteggiare altre superpotenze, a cominciare da Cina e Russia. Con la prima non soltanto sul piano militare, ma anche e soprattutto economico. Trump lo ha capito e sembra prenderne atto, quando dichiara di voler dialogare con Putin (che lo appoggia e ha fatto il tifo per lui) e con la Cina, per ridefinire le rispettive aree di influenza. E quando dice che gli europei devono pagarsi da soli le spese di mantenimento della Nato, riconosce in pratica che l'imperialismo americano non si può più permettere le spese militari di adesso. Lo stesso suo slogan “far tornare grande l'America”, che cos'è se non l'ammissione del declino in cui si trovano oggi gli Usa?

Un teatrino di marionette
È significativo che dopo essersene dette di tutti i colori in campagna elettorale, i protagonisti di questo teatrino di marionette ora vadano d'amore e d'accordo nel complimentarsi e sostenersi a vicenda. Obama aveva detto di Trump che era “costituzionalmente inadatto alla presidenza”, e che “non sa gestire un account di twitter, figuriamoci un arsenale nucleare”. Hillary aveva ammonito gli elettori democratici di essere “l'unica cosa frapposta tra voi e l'apocalisse”. Dal canto suo Trump aveva messo in dubbio la cittadinanza americana di Obama, adombrato sue simpatie con l'islamismo e definito “disastrosa” la sua amministrazione. Quanto a Hillary aveva minacciato di mandarla in galera se fosse stato eletto presidente.
Tutto ciò è stato archiviato in un baleno dopo le elezioni: Hillary ha dichiarato che “ora bisogna accettare il risultato e guardare al futuro. Trump è il nostro presidente”. Obama ha aperto la Casa Bianca al miliardario, intrattenendosi con lui per un'ora e mezzo di “eccellente conversazione”, mentre Trump ha detto che incontrarlo “è stato un onore”, e che lavorerà con lui per la transizione, e che anche dopo chiederà consiglio a lui e perfino a Bill Clinton, “che ha talento”. Quanto a Hillary, la sua incriminazione “non è una priorità”, ha precisato. È la dimostrazione lampante che chiunque vada alla Casa Bianca la parte che dovrà recitare è già assegnata dal sistema imperialista che è chiamato a rappresentare.

Il programma di destra di Trump
Ciò non toglie che il programma del miliardario newyorchese non sia quanto di peggio l'imperialismo a stelle e strisce possa esprimere. Ha promesso riduzioni fiscali a tutti, ma soprattutto agli straricchi come sè stesso e alle imprese, che non dovranno pagare più del 15% di tasse. Come poi questo sia conciliabile con la promessa di un grande piano di ricostruzione delle infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, aeroporti ecc. non è dato sapere). Vuole sospendere l'immigrazione dai paesi islamici, considerati tutti potenziali “terroristi”, minaccia di deportare due o tre milioni di immigrati irregolari, vuole dare più armi ai cittadini e più poteri alla polizia, nominare un giudice antiabortista alla Corte suprema, e così via.
Ha promesso alla cricca nazista sionista di Israele, che ha fatto il tifo per lui, di riconoscere Gerusalemme come sua capitale. Si circonda di personaggi fascisti, razzisti e xenofobi come l'ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, il curatore del sito di estrema destra, razzista e antisemita, Breitbart news , Stephen Bannon, che è stato nominato suo “consigliere strategico”, e la leader della destra repubblicana dei Tea party, Sara Palin.
Inoltre è una bufala colossale che egli sia un “alieno” rispetto al potere finanziario e politico, e perfino rispetto al suo stesso partito, dal momento che lo sostengono, lo finanziano e gli sono amici personali fior di finanzieri di Wall Street, petrolieri, lobbisti di professione, ex militari, rappresentanti dei governi di Arabia Saudita e Corea del Sud, senatori e governatori, che qui sarebbe troppo lungo elencare, e che come capo di gabinetto alla Casa Bianca ha nominato lo stesso presidente del Partito repubblicano, Reince Priebus. Del resto anche i “mercati” finanziari Usa e internazionali, che pure avevano sostenuto la Clinton e che nelle prime ore erano sembrati aver accusato il colpo, hanno fatto presto a riprendersi e marcare un rialzo deciso e generalizzato delle quotazioni, rassicurati che per essi non cambierà nulla neanche con Trump.

Le coraggiose proteste dei giovani americani

La sua pericolosità è stata invece ben compresa dai giovani, che fin dalla sua elezione sono scesi giorno dopo giorno a decine di migliaia nelle piazze e davanti alle università di decine e decine di città in tutto il Paese, per manifestargli tutta la loro avversione al grido di “Trump non è il mio presidente”, “fermiamo Trump e la sua agenda razzista”, “Fuck the Trump”, e così via. Si tratta dei cosiddetti “millennials”, nati sul finire del secolo scorso o all'inizio del presente, molti già militanti dei movimenti Occupy Wall Street e Black Lives Matter, elettori di Sanders che non sono andati a votare per la Clinton, e con la partecipazione in diversi casi di neri e ispanici.
Manifestazioni e scontri con la polizia con decine di arresti si sono succedute a Des Moines, Seattle, Oakland, Los Angeles, San Francisco, Las vegas e Portland. Manifestazioni si sono svolte anche davanti alla Casa Bianca e soprattutto a New York, con un corteo di diecimila persone che sono sfilate davanti alla “Trump Tower” a Manhattan. Trump, che inizialmente li aveva bollati come “contestatori di profesione incitati dai media”, vista l'estensione e la durata delle proteste ha poi cercato di fare buon viso a cattivo gioco dicendo che “mi piace che piccoli gruppi di manifestanti mostrino la loro passione per il nostro grande Paese”.
L'elezione del miliardario americano è stata salutata con particolare entusiasmo dalla Duma russa (che spera come Putin nell'apertura di nuove relazioni), ma anche dai governi fascisti, razzisti e xenofobi dell'Est europeo, Ungheria, Polonia, Slovenia e Paesi baltici in testa. Lo stesso hanno fatto i movimenti cosiddetti populisti europei, come i lepenisti in Francia e i leghisti in Italia. Incredibile che anche il narcisista qualunquista Grillo abbia salutato l'elezione di Trump come un “gigantesco vaffa”, dandogli di fatto rango di movimento “rivoluzionario” ed espressione genuina della volontà del “popolo americano”.
Quanto a Renzi, lui che solo poche settimane fa era stato accolto alla Casa Bianca con tutti gli onori da Obama, e che aveva ricevuto da lui l'appoggio esplicito per il referendum, offrendogli in cambio – unico leader in Europa e fidandosi incautamente dei sondaggi – il suo appoggio ufficiale e incondizionato a Hillary Clinton, ancor prima di telefonare a Trump per fargli le sue congratulazioni personali, è stato fulmineo nel cambiare casacca e fiondarsi sul carro del vincitore. Arrivando già alle 10,20 di mercoledì, appena noti i risultati, a dichiarare in un incontro coi sindaci: “A nome dell'Italia mi congratulo con Trump e gli auguro buon lavoro, convinto che l'amicizia italo-americana continuerà ad essere forte e solida”. Dopodiché si è scagliato vigliaccamente contro i giovani manifestanti anti-Trump, accusandoli di essere “quelli che non sono andati a votare” e che “non rispettano la democrazia”. Esattamente come aveva fatto pochi giorni prima contro i manifestanti anti-Leopolda a Firenze.
Vogliamo concludere quest'articolo richiamando quel che profeticamente scriveva Engels 125 anni fa nel Ventesimo Anniversario della Comune di Parigi nella Introduzione all'edizione tedesca de La Guerra Civile in Francia di Karl Marx. Parole che suonano di un'impressionante attualità: “In nessun paese i "politici" formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del nord. Ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è una professione, che specula tanto sui seggi nelle assemblee legislative dell'Unione quanto su quelli dei singoli Stati, o che per lo meno vive dell'agitazione per il suo partito e dopo la sua vittoria viene compensata con dei posti. È noto come gli americani tentano da trent'anni di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, affondano sempre più profondamente nella palude di questa corruzione. Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa separazione e contrapposizione del potere dello Stato alla società, di cui in origine esso era destinato a non essere altro che uno strumento. (...) Abbiamo qui due grandi bande di speculatori politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e lo sfruttano coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi; e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici, che apparentemente sono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano.
 
 

16 novembre 2016