Conferenza ONU sul riscaldamento globale a Marrakesh
Clima, ancora un nulla di fatto per il futuro del pianeta e dell’umanità
Nessuna sanzione per i Paesi che non rispetteranno l’accordo. mano libera ai capitalisti

 
In Marocco si è tenuta la COP22, la Conferenza dell’ONU sul clima, che segue la scorsa COP21 di Parigi, definita da tutti i capi di Stato a livello globale come il miglior accordo sul clima della storia. L’accordo di Parigi è entrato ufficialmente in vigore lo scorso venerdì 4 novembre, poiché ratificato da 97 paesi che rappresentano il 69% delle emissioni mondiali di Co2. Ad oggi, oltre 110 Paesi hanno aderito all’accordo e in sintesi, già a Marrakech si sono affrontate la definizione di regole ed aspetti procedurali, con l’auspicio di passare dalle parole ai fatti attraverso l’implementazione di quanto stabilito a Parigi. Oltre ai rappresentanti delle maggiori potenze imperialiste mondiali, 30 sono stati i capi di Stato africani partecipanti, in aggiunta al gran completo della lista degli stati insulari del pacifico che hanno inviato a Marrakech i propri leader politici per ribadire che per i loro territori l’azione globale contro il riscaldamento globale è una mera questione di sopravvivenza. L’Italia è stata rappresentata dal ministro per l’Ambiente Gian Luca Galletti, accompagnato da una delegazione di 44 persone. Renzi aveva annunciato la sua partecipazione ma evidentemente è stato troppo impegnato con la campagna referendaria, nel tentativo di affossare definitivamente la Costituzione del ’48, per pensare al futuro del pianeta.

Gli USA e l’elezione di Trump
La prima settimana di negoziati è stata “turbata” dall’esito del voto negli USA. Stando a quanto espresso in campagna elettorale, per Trump, il riscaldamento climatico è “una bufala inventata dalla Cina per indebolire l’industria manifatturiera americana”. Nel suo programma è prevista la riapertura delle miniere di carbone, il rilancio dello shale gas e l’annullamento delle norme dell’Agenzia federale di protezione dell’ambiente (Epa). Suscitando la preoccupazione degli ambientalisti, Trump ha scelto Myron Ebell per guidare il passaggio di consegne con l’amministrazione Obama per l’Epa. Ebell ha lavorato alla Philip Morris e ha collaborato con il Competitive Entreprise Institute, uno dei centri della diffusione delle tesi di scetticismo sul riscaldamento climatico che ha inoltre ricevuto fondi dal colosso del greggio ExxonMobil; non è uno scienziato ma da tempo si batte contro quello che definisce allarmismo sulle tematiche climatiche ed allo stesso tempo sostiene l’industria del carbone e del petrolio. Più volte ha chiesto di aumentare le ricerche di nuovi giacimenti di petrolio e di gas e ancora ha proposto di sostenere e rilanciare l’industria dell’estrazione del carbone. Inoltre ha chiesto al Senato di votare contro l’accordo di Parigi, firmato il dicembre scorso.
A differenza delle associazioni, l’Onu nasconde i timori del nuovo corso USA sul clima e per bocca della responsabile di settore, Patricia Espinosa, si è limitata ad affermare che l’Organizzazione ha “fretta di collaborare con l’amministrazione Trump e far avanzare l’agenda climatica a vantaggio delle popolazioni del mondo ”. In realtà Trump ha già minacciato di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi che, sulla carta, impegna il paese a una riduzione del 28% di emissione di gas a effetto serra entro il 2025 (rispetto al livello del 2005). Inoltre, a smentire coloro che affermano le difficoltà ad uscire dall’accordo una volta ratificato, alcuni giuristi hanno trovato grossi difetti nella redazione del documento di Parigi, che del resto è “volontario” e non prevede sanzioni per chi lo trasgredisce: Trump quindi, come in seguito chiunque altro, potrebbe far uscire subito gli Usa dalla Convenzione-quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici.
Noi sappiamo bene che questa formula è la dimostrazione che il sedicente vincolo sbandierato come la principale vittoria di Parigi, nella sostanza, non esiste. John Kerry, rappresentante dell’amministrazione Obama che ha ratificato l’accordo francese, in una sua dichiarazione, col chiaro intento di rassicurare gli alleati mondiali, ha aggiunto “non so quale politica farà Trump ma posso dire che alcune questioni prendono un aspetto molto diverso quando si è al potere rispetto a quello che si dice in campagna ”.
Pare invece assurdo in prima analisi che una dichiarazione di 360 società multinazionali, soprattutto statunitensi come Unilever, Hilton Hotel, Nike, IKEA, Starbucks, Virgin, Intel, Allianz, Ebay, Hilton, L’Oreal, Levi Strauss, Gap e addirittura la farmaceutica e agrochimica DuPont, abbiano lanciato un’allerta sui rischi che una eventuale scelta USA a favore del passato in campo energetico possa incidere negativamente sulla “prosperità americana”, al di là di ogni preoccupazione per il clima. “Vogliamo che l’economia americana sia efficiente dal punto di vista energetico ed alimentata da fonti low-carbon (…). Un fallimento in questo senso porrebbe la nostra economia a rischio, mentre azioni corrette oggi creeranno posti di lavoro accrescendo la competitività americana. Ci impegniamo a compiere la nostra parte (…) ”. In realtà per le multinazionali, grandi sfruttatrici di manodopera e di risorse naturali mondiali, quale miglior spot pubblicitario può esserci, in particolare verso i giovani più sensibili alle tematiche ambientali, se non quello di schierarsi opportunisticamente e verbalmente a fianco dell’ambiente e dell’umanità?

Le premesse della COP 22
Secondo un rapporto della Banca mondiale, le calamità naturali causate dal disordine climatico, inondazioni, tempeste, migrazioni climatiche, costano 520 miliardi l'anno e colpiscono quasi sempre i più poveri; tuttavia i dati forniti dal consorzio scientifico Global Carbon Project hanno rivelato che nel 2015 le emissioni di Co2 causate dall’attività umana sono rimaste stabili, dato che dovrebbe venire confermato nel 2016. I più ottimisti hanno immediatamente affermato che la “cura” individuata a Parigi funziona, dimenticando però che gli anni in questione rimangono in assoluto i più caldi della storia e che quindi tali misure non sono assolutamente sufficienti per rispettare l’obiettivo di un riscaldamento climatico ulteriore che non superi il grado e mezzo.

L’Unione europea
Fino a qualche tempo fa, per lo meno a parole, l’Unione europea era alla testa del movimento mondiale per la lotta ai gas effetto serra. Oggi però, a seguito della crisi del capitalismo che l’ha investita in pieno e dalla quale essa stenta a riemergere, anche i suoi proclami sono molto più remissivi e contenuti. Infatti la Commissione europea deve svelare il 30 novembre prossimo il “pacchetto inverno” sull’energia pulita. In questo testo, secondo Euractiv, ci sarebbero sovvenzioni per il settore di energia fossile per tutti, ed in particolare per la Polonia che potrebbe continuare a costruire nuove centrali a carbone, di cui è già ampiamente dipendente. Nel pacchetto non paiono esserci strumenti di difesa e di rilancio per le rinnovabili, nonostante rimanga l’obiettivo del 27% nella produzione di energia elettrica “verde” entro il 2030, che sembra sempre più un miraggio.

Le questioni sul tavolo a Marrakesh
All’inizio della COP22 non era ancora chiaro quali punti sarebbero stati effettivamente discussi a Marrakech, e quali ancora rimandati a conferenze successive; tuttavia era evidente come la COP22 rappresentasse già un banco di prova importante per testare la determinazione e la risolutezza dei Paesi nel rispettare ed applicare le misure, ad oggi insufficienti, per contrastare il cambiamento climatico. Dobbiamo innanzitutto ricordare che i target di riduzione contenuti nelle politiche energetiche definiti dai singoli stati (NDC) e presentati a partire dallo scorso anno per comunicare i nuovi impegni per il periodo 2020-2030, sono risultati essere piuttosto differenti tra loro circa il significato dato alle “caratteristiche” che tali NDC avrebbero dovuto avere. Per questo essi sono stati valutati come insufficienti dall’Unfccc, dall’Unep e da numerosi studi scientifici; una base di partenza non proprio ottimale che dimostrava nei fatti come i “successi” di Parigi erano tutt’altro che evidenti e consolidati.

L’ennesimo nulla di fatto
Nella sostanza, e dopo queste dovute premesse, la COP 22 si è conclusa alle 18 del 18 novembre deludendo le aspettative di quanti si attendevano una effettiva assunzione di responsabilità degli Stati partecipanti, per salvaguardare il futuro del pianeta e dell’umanità. A poco anche stavolta sono valse le evidenze scientifiche sugli inarrestabili record della temperatura globale, sulla concentrazione di Co2 che supera stabilmente le 400ppm, sui 250.000 morti causati annualmente dai cambiamenti climatici e sugli scenari che prevedono l’aumento medio di temperatura a fine secolo a +2,9/3,4°; rimane infatti intatta la principale lacuna dell’accordo, e cioè la mancanza di sanzioni per i paesi che, pur aderenti, rimangono inadempienti nelle misure adottate e nei risultati conseguiti, a seguito della quale tutto il resto perde di credibilità e di significato. Permane l’incertezza sui criteri di trasparenza per misurare gli impegni definiti a livello nazionale, così come nessun passo in avanti è stato fatto per raggiungere l’obiettivo di destinare 100 miliardi entro il 2020 per il Fondo Verde.
D’altra parte i toni dei rappresentanti dei paesi imperialisti del nord hanno fatto da contraltare alle preoccupazioni largamente contenute nelle dichiarazioni dei delegati dei paesi del sud che rappresentano l’area del mondo subalterna e colonizzata. A poco servirà, se mai fosse anch’esso realizzato, l’impegno preso dal Climate Vulnerable Forum - 48 tra i paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico tra cui Bangladesh, Madagascar, Costa Rica, Vietnam - che ha annunciato di voler agire immediatamente mettendo in piedi piani di azione per la transizione al 100% rinnovabili nel più breve tempo possibile e fissando come obiettivo il contenimento dell’aumento di temperatura entro +1,5°.
Il ministro Galletti ha affermato che l’Italia è leader mondiale nella decarbonizzazione, assieme al Canada e al Regno Unito e che intende assieme a questi paesi costituire un club di “amici della decarbonizzazione”. La realtà italiana, con petrolio e gas che continuano a solleticare le mire energetiche nostrane, unite al piano infrastrutturale del Paese che privilegia ancora il trasporto su gomma, e però in ben altro stato. Il governo italiano ha inoltre recentemente eliminato gli incentivi per le fonti rinnovabili concesse nei piani 2004-2013, riducendo anche quelli già erogati in maniera retroattiva, elargendo invece nuove concessioni per cercare petrolio e gas in terra e mare per un totale di 30.000 km2 solo in Adriatico.
Per il resto, a parte le formule di rito, nel documento conclusivo si celebra “lo straordinario slancio registrato quest’anno sul tema, uno slancio irreversibile su cui occorre andare avanti in maniera propositiva per ridurre le emissioni e favorire gli sforzi di adattamento ”. Il testo conclude chiedendo “massimo impegno politico per combattere il cambiamento climatico, quale questione di assoluto priorità e per aumentare urgentemente le ambizioni al fine di ridurre il divario tra i trend emissivi attuali e il percorso necessario per mantenere gli obiettivi di temperatura a lungo termine contenuti nell’Accordo di Parigi ”. Ma chi sono i destinatari dell’appello se non loro stessi, capi di Stato o funzionari presenti che hanno firmato il documento?
In sostanza gran parte delle associazioni ambientaliste si dicono deluse dell’esito pratico della COP 22; ma cosa aspettarsi dall’ennesima conferenza ONU tutta interna al capitalismo se non vaghe parole di rassicurazione alla popolazione mondiale e mano libera nella pratica alle multinazionali dell’energia, alla grande industria inquinatrice ed alle banche? Vogliamo davvero svoltare verso una industria che rispetti gli esseri umani, la natura e l'ambiente? Allora il primo passo è rimettere in discussione tutti i rapporti di produzione, il profitto capitalistico che rapina gran parte delle risorse naturali e di quelle prodotte, ed il nostro sistema economico capitalista; per dirla in breve ci vuole il socialismo.
 

23 novembre 2016