Sentenza della Corte costituzionale
I figli possono avere il cognome della madre
Duro colpo al patriarcato. Subito la legge che equipari i genitori nel riconoscimento dei figli
La Corte costituzionale ha accolto lo scorso 8 novembre il ricorso presentato dalla Corte di appello di Genova circa possibilità di dare il cognome della madre ai figli, dichiarando illegittima, alla luce della Costituzione, la norma “che prevede l'automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori
”.
Anche se bisognerà attendere la pubblicazione della sentenza per conoscere esattamente quale norma o quali norme specifiche sono state dichiarate incostituzionali, è noto che attualmente la normativa che riguarda l’attribuzione automatica del cognome del padre ai figli alla quale si riferisce la Consulta in tema di attribuzione del cognome ai figli è contenuta in alcuni articoli contenuti nel I Libro del codice civile entrato in vigore nel 1942 anche se più volte modificato, dal regio decreto fascista n. 1238 del 1939 e dal più recente decreto del Presidente della Repubblica n, 396 del 2000, che in pratica dispongono l'attribuzione automatica del cognome paterno ai figli legittimi nati durante il matrimonio, indipendentemente dal fatto che entrambi i genitori siano concordi o meno di attribuire al minore entrambi i cognomi.
All’origine del ricorso incidentale proposto alla Corte costituzionale dalla Corte d’Appello di Genova per violazione di una serie di diritti costituzionali come quello all'identità personale e di pari dignità dei genitori vi è una causa promossa da una coppia a seguito di rifiuto, da parte dell'ufficiale di Stato civile, di attribuire al loro figlio anche il cognome della madre.
Il pronunciamento della Corte costituzionale è in realtà il punto di arrivo di una storia piuttosto lunga, perché già nel 1995 e poi ancora nel 1998 il Consiglio d’Europa aveva affermato che mantenere automaticamente l’attribuzione del cognome del padre ai figli non era compatibile con il principio di uguaglianza sostenuto dal Consiglio stesso, e successivamente la Corte europea per i diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per la sua legislazione discriminatoria nei confronti della donna con la sentenza del 7 gennaio 2014, a seguito di un ricorso presentato nel 2007, ritenendo che l’ordinamento giuridico debba necessariamente garantire “un’evoluzione nel senso dell’eguaglianza dei sessi e dell’eliminazione di ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del cognome
”.
Lo stesso anno alla Camera dei deputati veniva presentato un disegno di legge, attualmente fermo in Commissione Giustizia del Senato e ben lontano da una rapida approvazione, per garantire anche alla madre la possibilità concreta di dare il proprio cognome ai figli.
La Corte costituzionale dal canto suo si era già trovata ad affrontare un caso molto simile - otto anni prima della ricordata sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo - affrontato con la sentenza n. 61 del 2006 emanata a seguito di un ricorso incidentale di un giudice civile di merito la cui causa verteva sulla sostituzione del cognome materno a quello paterno: allora, pur definendo l'attribuzione automatica del cognome paterno un “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna
”, dichiararono inammissibile la questione sottolineando come spettasse al legislatore trovare una soluzione normativa al problema.
La Corte costituzionale insomma ha dato un duro colpo a una concezione retrograda e patriarcale della famiglia che in effetti risale, come hanno ricordato gli stessi giudici con l’espressione “diritto di famiglia romanistico
”, a oltre duemila anni fa quando era ancora vivo Scipione l’Africano, perché in effetti il diritto di famiglia, pur avendo dovuto fare i conti con l’evoluzione sociale imposta dalla lotta delle donne per la parità dei diritti resta tuttora un baluardo di cultura reazionaria sia nelle istituzioni sia nel diritto.
Non sono pertanto ammissibili da parte del parlamento ulteriori ritardi nell’emanazione della legge che equipari i genitori nel riconoscimento dei figli.
30 novembre 2016