Con l'avallo di Mattarella
Varato il governo Gentiloni, fotocopia di quello di Renzi
L'alternativa di classe per cambiare l'Italia non sono le elezioni ma il socialismo e il potere del proletariato
Ad appena una settimana dal referendum costituzionale che lo ha travolto il governo Renzi rinasce in fotocopia, ma guidato dall'ex “marxista-leninista” da salotto, ex rutelliano e renziano della prima ora, Paolo Gentiloni. E il nuovo duce Renzi, che aveva proclamato solennemente di lasciare la politica e cambiare mestiere se non fosse passata la sua controriforma fascista e piduista del Senato, resta invece incollato al posto di segretario del PD per preparare la rivincita, giocandosi la camicia per tornare al potere con le elezioni anticipate che vuole a primavera.
È questa la conclusione della crisi che si è aperta la sera del 4 dicembre con la disfatta oltre ogni previsione del fronte del Sì e la farsa delle dimissioni in diretta tv di Renzi, crisi che Mattarella ha voluto si risolvesse rapidamente con l'insediamento di un nuovo governo “nella pienezza delle sue funzioni”, prima del Consiglio europeo del 15 dicembre e per far fronte a scadenze urgenti come il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, nonché ad altri “adempimenti e scadenze interni, europee e internazionali”. Stoppando a questo scopo qualsiasi ipotesi di scioglimento delle Camere e di elezioni immediate chieste dalle opposizioni parlamentari, ma anche dallo stesso Renzi: ovvero non prima di aver proceduto ad approvare una nuova riforma elettorale valida per entrambe le Camere, e in ogni caso solo dopo la sentenza della Consulta sull'Italicum calendarizzata per il 24 gennaio.
Non è un Renzi-bis a tutti gli effetti per portare a compimento la legislatura, come avrebbe voluto in prima istanza il capo dello Stato, e come chiedeva domenica scorsa a gran voce l'ex monarco-fascista e neo baciapile Scalfari al nuovo duce, sognando che rivestisse i panni di Cavour e Garibaldi “per il bene del nostro Paese”. Renzi non se lo poteva permettere senza perdere definitivamente la faccia, e in ogni caso non voleva vivacchiare come un'anatra zoppa, dipendente dai voti di Berlusconi e Verdini ed esposto al fuoco incrociato del M5S e della Lega e agli agguati della sinistra del PD.
Per questo, dopo aver stoppato subito le ambizioni di Franceschini a guidare un governo di legislatura, e constatato la ritrosia di Berlusconi a entrare in un governo di “larghe intese”, pena la rottura con Salvini, Renzi ha giocato la carta del governo fotocopia guidato dal fedele Gentiloni, ma non senza stabilire meticolosamente il suo mandato, limitato alla sola legge elettorale per poi andare alle elezioni, e la sua composizione, facendo solo i cambiamenti strettamente indispensabili e mettendo i suoi uomini e donne più fidati in tutti i posti chiave.
Il motto fascista di Renzi: “Ritorneremo”
Nel frattempo, riavutosi dallo shock iniziale, Renzi riprendeva decisamente in mano le redini del partito, senza prendere in considerazione neanche per un momento l'idea di dare le dimissioni da segretario. In un lungo e sapientemente lacrimoso post su Facebook, in cui esaltava i suoi “fantastici mille giorni di governo” e “l'elenco impressionante delle riforme realizzate”, e sosteneva del tutto falsamente di essere tornato “semplice cittadino”, proclamava anzi la sua sete di rivincita annunciando ai “milioni di italiani” che hanno votato Sì che “non ci stancheremo di riprovare e ripartire”: era la conferma della linea revanscista già teorizzata nel tweet del suo braccio destro Luca Lotti di “ripartire dal 40% preso domenica”. Come se cioè il referendum non avesse decretato la bruciante sconfitta di Renzi, ma avesse ripetuto la “vittoria” alle europee del 2014.
Ed è dietro questa linea che l'ex premier si è trincerato nelle Direzioni del PD del 7 e del 12 dicembre, rifiutandosi con arroganza non solo di ammettere la sconfitta e di aprire un qualsiasi dibattito sulle sue cause e responsabilità, ma lanciando una sfida ai suoi oppositori a misurarsi in un congresso anticipato e alle primarie a marzo o aprile come segretario e candidato premier. Un congresso che dovrà essere deciso dall'Assemblea nazionale di mille delegati del 18 dicembre, della quale ha la stragrande maggioranza e nella quale non si presenterà da dimissionario, contando invece di gestire tutta la fase congressuale da segretario in carica.
Né del resto la sinistra del PD ha avuto il coraggio di reclamare con forza il dibattito e chiamarlo a rispondere della sconfitta dando le dimissioni anche da segretario. Come al solito si è limitata a qualche mugugno, come con l'intervento di Speranza, per poi finire a votare all'unanimità con i renziani per l'incarico a Gentiloni, “per senso di responsabilità”, salvo chiedere una “discontinuità” nell'azione del suo governo fotocopia e valutando di volta in volta la sua “capacità di ascolto delle esigenze del Paese”.
Il marchio di Renzi sul nuovo governo
La realtà è che il marchio di Renzi su questo governo non poteva essere più evidente e sfacciato di così. A cominciare dalla Boschi, madrina della controriforma piduista bocciata dal Paese, che anziché lasciare la politica insieme a Renzi, come aveva spergiurato se avesse vinto il NO, è stata addirittura promossa a sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, vale a dire a numero due del governo Gentiloni. E da Luca Lotti, promosso a sua volta ministro allo Sport, con due deleghe di peso come quella all'Editoria (vale a dire al controllo dell'informazione) e al Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, che è un organismo chiave per gestire i finanziamenti delle grandi opere e per la partita delle nomine agli enti pubblici (Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie, Poste ecc.) che si riaprirà ad aprile.
E solo per decenza e per la riluttanza di Mattarella non gli è toccata anche la delega ai servizi segreti, da Renzi fortemente voluta e tenuta invece dallo stesso Gentiloni. Proprio a quello scopo era stato spostato l'ex dalemiano Minniti agli Interni, e di conseguenza è stato spostato Alfano agli Esteri, ministero lasciato vacante da Gentiloni. Mentre per far posto alla Boschi è stato promosso De Vincenti allo Sviluppo economico, proprio lui che era risultato implicato nello scandalo petroli insieme all'ex ministra Guidi.
Senza dimenticare, naturalmente, i ben 12 ministri del vecchio governo, sui 18 in totale del nuovo, confermati ai loro posti, compresi l'antioperaio Poletti al Lavoro e la Madia alla Pubblica amministrazione, nonostante che con il Jobs Act e la controriforma della stessa abbiano contribuito a decretare la sconfitta del Sì da parte dei giovani e dei dipendenti pubblici. Per non parlare dell'ex dalemiana Finocchiaro, relatrice della controriforma del Senato, promossa al ministero lasciato dalla Boschi. Solo l'odiata ministra Giannini ha pagato per il plebiscitario NO del mondo della scuola, peraltro sostituita dall'ex femminista, collaboratrice de “Il Manifesto” trotzkista e sindacalista della Cgil, Valeria Fedeli, oggi renziana tra le più accanite.
Del resto è stato lo stesso Gentiloni, nel suo discorso programmatico tenuto in una Camera semivuota per l'assenza per protesta di M5S, ALA e Lega Nord, a rivendicare la continuità del suo governo con quello di Renzi. A rivendicare cioè “il grande lavoro che abbiamo alle spalle” e “i risultati ottenuti che hanno rimesso in moto l'Italia”, e di cui “siamo orgogliosi”. Come anche a portare avanti l'agenda di Renzi “molto fitta”, sia riguardo agli impegni internazionali, sia agli impegni economici (sistema bancario, grandi infrastrutture, industria 4.0), sia al programma di “riforme”, come quella del lavoro, l'anticipo pensionistico, la pubblica amministrazione, il processo penale (compresa la legge bavaglio sulle intercettazioni) e libro bianco della difesa.
Illusioni elettorali o lotta di classe
Non per nulla il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, convinto sponsor di Renzi, ha plaudito pubblicamente alla riconferma di molti dei ministri del precedente governo, in particolare quelli che l'associazione padronale ha seguito “con attenzione” e “per alcuni aspetti importanti”, auspicando che il governo “continui nella spinta riformatrice del Paese”.
Gentiloni non ha accettato invece le richieste di Verdini di dare uno o due ministeri ai suoi uomini, perché la cosa sarebbe apparsa troppo indecente, ragion per cui il gruppo ALA non gli voterà la fiducia. Ma questo può perfino tornare utile a Renzi per tenere meglio in ostaggio il governo, al quale il nuovo premier non ha assegnato una scadenza, e neanche legato espressamente alla riforma elettorale, ma che, ha detto, durerà “fin quando ha la fiducia del parlamento”.
Il varo del governo fotocopia Gentiloni conferma che la strepitosa vittoria antifascista del NO ha sepolto il disegno mussoliniano di Renzi, ma non intaccato il potere della classe dominante borghese in camicia nera, che continua puntando su un cavallo di ricambio la stessa politica neofascista, liberista, stangatrice e interventista del governo Renzi. Bisogna perciò andare avanti, prendendo slancio da questa battaglia appena vinta per combattere anche questo nuovo governo della borghesia e continuare a difendere i diritti e le conquiste dei lavoratori, senza confidare però nelle elezioni borghesi, che siano subito o tra sei mesi o alla scadenza naturale, ma solo sulla lotta di classe, che è l'unico strumento veramente capace di difendere la libertà e la democrazia e le condizioni del proletariato e delle masse sfruttate e oppresse.
Come l'esperienza di 70 anni di prima e seconda repubblica dimostra, non è con le illusioni elettorali, parlamentari e governative che si può cambiare l'Italia e dare il potere al proletariato. La richiesta dell'attuazione integrale della Costituzione del '48 è strumentale e fuorviante giacché essa è già stata ormai quasi del tutto fatta a pezzi dal regime neofascista ed è stata in origine concepita per difendere il capitalismo e il potere della borghesia.
L'alternativa di classe al capitalismo può essere solo il socialismo, l'unica società in cui non ci siano più sfruttamento e oppressione, disoccupazione e povertà, ingiustizie e disuguaglianze sociali, territoriali e di genere. Il socialismo è il proletariato al potere, e come dice il Documento dell'Ufficio politico del PMLI sulla vittoria del NO al referendum, “noi lo riproponiamo a tutte le elettrici e gli elettori di sinistra, a partire dalle operaie e dagli operai, dalle ragazze e dai ragazzi, come prossima meta da conquistare”.
14 dicembre 2016