Al call center più grande d'Italia
Licenziati 1.666 lavoratori di Almaviva
Dopo il NO della RSU romana un referendum ottiene un risicato Sì (55%) all'accordo, l'azienda conferma la chiusura della trattativa
Almaviva come la Fiat di Pomigliano: o si riducono salari e diritti o si licenzia
Sta giungendo alle battute finali la vertenza Almaviva, il call center di proprietà della famiglia Tripi che chiede ai lavoratori inaccettabili tagli ai propri stipendi e ai propri diritti. Solo così l'azienda aveva ventilato la possibilità di mantenere operative le sedi di Roma e Napoli che assieme occupano più di 2.500 dipendenti. Promesse tra l'altro molto vaghe che non assicurano in alcun modo la stabilità futura di questi posti di lavoro, ma al massimo un “congelamento” dei licenziamenti. La strategia del gruppo, come di tutti gli operatori del settore, sembra molto chiara ed è il trasferimento all'estero, in particolare Albania e Romania, alla ricerca del salario più basso.
Una vertenza molto dura che oramai da un anno tiene sulla corda migliaia di lavoratori e le loro famiglie. Nel mirino sopratutto le sedi di Roma, Napoli e Palermo, oltre 5.000 tagli su un totale di 13mila occupati in tutta Italia. Solo il sito siciliano si è in seguito momentaneamente salvato, “grazie” all'ennesimo sacrificio imposto ai lavoratori e ai trasferimenti in Calabria con un accordo firmato circa un paio di mesi fa. Maggiore produttività, maggiore controllo, salari da fame sono una costante dell'atteggiamento di Almaviva che chiede ai suoi dipendenti sempre maggiori sacrifici.
Ma questo braccio di ferro ha trovato l'opposizione, che forse l'azienda non si aspettava, dei lavoratori costituiti in larga parte da giovani e donne che stanno conducendo da molti mesi una lotta che ha avuto momenti di grande mobilitazione. Un esempio è stato il referendum sul piano proposto da Almaviva ad inizio 2016 che proponeva una ricetta con i soliti ingredienti: licenziamenti, trasferimenti, tagli ai salari. Nonostante le minacce nella consultazione svoltasi tra aprile e maggio si era registrato un netto rifiuto alle pretese dell'azienda: in tutte le sedi italiane i lavoratori avevano votato NO con percentuali al di sopra del 90%.
Ma la storia di Almaviva è cronicamente segnata da ricatti e minacce, nonostante fin dalla sua nascita abbia sempre usufruito di agevolazioni e vantaggi, ottenuti grazie anche alle potenti amicizie che il suo padre padrone, Alberto Tripi, stringe con i maggiori politici borghesi italiani, tra tutte quella con il democristiano ed ex Presidente del Consiglio Romano Prodi. Si narra che nella stanza a fianco al suo studio sia nato l'Ulivo nel 1996, è lui stesso in una intervista a La Repubblica di qualche anno fa a confermare la frequentazione della sua azienda: “quando il mio amico Prodi aveva bisogno di un posto tranquillo per lavorare al nuovo progetto”.
In pochi anni Almaviva è diventata leader nel suo campo, aggiudicandosi le commesse di aziende come Enel, Vodafone, Alitalia, Sky, Telecom, Wind, Poste Italiane, le quali, piuttosto che mantenere all'interno costi e responsabilità di alcuni dei loro servizi, in particolare quelli di assistenza ai clienti e il procacciamento di nuovi contratti, preferiscono esternalizzarli, con la pratica definita outsourcing,
affidandoli ad aziende che sgomitano tra loro in gare al massimo ribasso (spesso per commesse proveniente dallo stesso settore pubblico) in grado di garantire i profitti sia dei committenti che delle aziende di servizi alle imprese.
Già nel 2000 Almaviva usufruisce di sgravi contributivi dati alle aziende che assumevano nelle regioni considerate svantaggiate (Leggi 407/90 e 388/2000) aprendo sedi a Napoli, Palermo, Catania entrando prepotentemente nel mercato grazie a soldi pubblici e ampliandosi sul territorio italiano negli anni seguenti anche attraverso alcune acquisizioni. Più tardi nel 2007, a seguito della forte battaglia dei lavoratori, Almaviva stabilizza circa 4.000 precari, dopo che l'Ispettorato del Lavoro dichiarò illegittimi i contratti di collaborazione coordinata e continuativa che venivano utilizzati per coprire forme di vero e proprio lavoro subordinato. Grande vittoria dei lavoratori, ma il governo Prodi correrà in soccorso della famiglia Tripi consentendo all'azienda di non pagare il pregresso che avrebbe dovuto dare ai suoi dipendenti. I lavoratori assunti sono così costretti a firmare una liberatoria per rinunciare a ciò che gli spetta prima della data dell'assunzione e, come se non bastasse, Almaviva, per tali regolarizzazioni alle quali era stata costretta, intasca pure degli incentivi.
Lo sfruttamento intensivo dei lavoratori e gli incentivi pubblici permettono all'azienda di espandersi all'estero, dalla Tunisia al Brasile, ottenendo ulteriori enormi guadagni. Anche la stabilizzazione dei lavoratori con contratto di somministrazione che avviene a Napoli e Catania, ma con inquadramento professionale inferiore alle altre sedi, tra il 2010 e il 2012, è determinata dalla possibilità per Almaviva di intascare incentivi statali e, nel caso di Napoli, anche regionali. Una politica a dir poco spregiudicata che, assieme al fiume di soldi pubblici si è sempre caratterizzata per i continui trasferimenti di personale al fine di neutralizzare e isolare i lavoratori più combattivi e sindacalmente attivi, e trasferimenti di commesse per mettere in cattiva luce alcune sedi e giustificarne la chiusura o il ridimensionamento che in realtà viene deciso in base alle agevolazioni.
Così arriviamo ai giorni nostri quando l'azienda annuncia la chiusura delle sedi di Roma (1.666 addetti) e Napoli (850). Ancora una volta la reazione dei lavoratori è dura e decisa e si susseguono gli scioperi, volantinaggi, picchetti, blocchi stradali, l'ultimo sciopero in ordine di tempo è stato fatto il 19 dicembre, ferme tutte le sedi italiane. Il 21 dicembre si è svolto l'incontro decisivo tra l'azienda, i rappresentanti sindacali e il governo nel tentativo d'impedire ad Almaviva di gettare sul lastrico alcune migliaia di persone. Sostanzialmente è passata la proposta del governo per cui il colosso dei call-center accetta solo un temporaneo congelamento dei licenziamenti basato sul rinvio e sulla proroga di altri 3 mesi delle trattative. In questo periodo entrerà in campo la cassa integrazione: a zero ore per il mese di gennaio, al 75% per il mese di febbraio e al 50% per marzo.
Nonostante i lavoratori si fossero espressi in modo fermo e inequivocabile contro qualsiasi intesa che avesse previsto un maggiore controllo sui dipendenti e un taglio ai salari Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un accordo che va nella direzione opposta. Inasprimento del controllo a distanza sulla prestazione lavorativa del singolo operatore, riduzione del salario abbassando di un livello l'attuale inquadramento, licenziamenti volontari e, in caso di mancato cedimento al ricatto su salario e controllo, gli esuberi saranno trattati con il licenziamento collettivo entro 15 gg, in più Almaviva pretende un immediato quanto generico aumento della produttività nelle due sedi.
Di fronte a questo diktat la RSU della sede di Napoli decideva a maggioranza per il Sì all'accordo mentre quella di Roma rispondeva all'unanimità di NO. Dopo di che si scatenava un vergognoso attacco ai rappresentanti sindacali aziendali romani tacciati di essere “irresponsabili” per non aver fatto altro che rispettare il mandato avuto dai lavoratori, rischiando loro stessi il posto di lavoro. A questo punto l'unica vertenza è stata scissa in due distinte con la sede di Napoli, tenuta momentaneamente in sospeso, mentre per tutti i 1.666 dipendenti di Roma sono state spedite le lettere di licenziamento.
Cercando in extremis di far convergere tutti sulla sua proposta il governo ha fatto propria l'idea della Cgil di far votare i lavoratori romani e il 27 dicembre, con le lettere di licenziamento già in mano in quasi 1.100 hanno votato sull'accordo nella sede romana della Cgil, dove il Sì ha vinto seppur di poco, 590 rispetto ai 473 NO. Sia per l'accordo del 23 dicembre che per la consultazione del 27 si è ricreato quel clima instaurato a Pomigliano per il piano imposto da Marchionne dove la scelta è stata: o accettate il peggioramento delle condizioni di lavoro, o il vostro posto semplicemente sparisce o emigra all'estero. Almaviva comunque non ha fatto marcia indietro confermando i licenziamenti, intanto a Roma ma anche Napoli rimane nel mirino. Separando la vertenza il governo ha vergognosamente diviso i lavoratori e fatto ricadere la colpa sulla RSU romana che si è coraggiosamente opposta alle minacce e ai ricatti di Almaviva.
La colpa è dell'azienda che si garantisce i profitti e poi scarica sui lavoratori le difficoltà. Ma anche del governo. Una legislazione che fa acqua da tutte le parti offre alle aziende del settore ampia libertà di manovra nella delocalizzazione esterna alle ditte “madri” che subappaltano parte dei loro servizi, a questa si aggiunge quella interna all'Italia, oggi ampliata dall'entrata in vigore del Jobs Act che permette licenziamenti e demansionamenti, e quella esterna con lo spostamento all'estero di sedi che lavorano comunque per l'Italia e infine con le stesse commesse pubbliche fatte al ribasso e già sotto il livello dei contratti nazionali che in qualche modo “costringono” le aziende a cercare Paesi dove il costo della vita e i salari sono più bassi.
4 gennaio 2017