Osservatorio pensioni dell'Inps
Sei pensionati su dieci sotto la soglia della povertà
In 11 milioni ricevono una pensione sotto i 750 euro
I dati dell'Inps relativi al 2016 certificano che la stragrande maggioranza dei pensionati italiani percepisce degli assegni da fame, come ben sanno i diretti interessati e i loro familiari. Si tratta dunque di una scoperta dell'acqua calda ma fa sempre un certo effetto sapere che su 18 milioni e 29.590 mila pensioni, ben 11 milioni e 374.619 mila si trovano sotto la soglia dei 750 euro mensili. Questi sono i numeri contenuti nell'ultimo osservatorio sulle pensioni, che non include però le gestioni dei dipendenti pubblici ed ex Enpals.
Va ricordato che la cifra di 18 milioni e passa si riferisce agli assegni erogati e non ai singoli riceventi perché in alcuni casi i pensionati percepiscono più di una prestazione, ma il dato rimane impressionate ed è indicativo del livello di povertà in cui vivono gli anziani e chi usufruisce di assegni sociali e d'invalidità civile.
Del totale di prestazioni versate, più di 14 milioni sono di natura previdenziale, ovvero hanno avuto origine dal versamento di contributi durante l'attività lavorativa del pensionato. Le rimanenti sono costituite dalle prestazioni erogate dalla gestione degli invalidi civili (comprensive delle indennità di accompagnamento) e da quella delle pensioni e assegni sociali, cioè prestazioni erogate per sostenere una situazione di invalidità, congiunta o meno a situazione di reddito basso. L'importo complessivo annuo risulta pari a 197,4 miliardi di euro di cui 176,8 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali.
Quando si analizza la distribuzione per classi d'importo è la stessa Inps a dichiarare come emerga chiaramente “una forte concentrazione nelle classi basse". Il 65,1% delle pensioni rimane sotto i 750 euro e addirittura più di un quarto (26%) è al di sotto dei 500 euro mensili. Dall'altra parte ci sono 345mila pensioni sopra i 3.000 euro mensili, solo il 2% del totale.
Un altro dato che balza subito agli occhi è la discriminazione di genere a scapito delle donne. La componente femminile a larga maggioranza (il 76,6%) è collocata nella fascia sotto i 750 euro contro poco più del 45% degli uomini. Ovviamente situazione inversa quando si comincia a salire anche se non si tratta certo di cifre da nababbi: assegni sopra i 1750 euro mensili sono incassati solo dal 3% delle donne. Alla luce di questo appare ancora più inaccettabile la tentazione governativa di togliere la reversibilità della pensione del coniuge che generalmente, a causa della maggiore longevità femminile, rappresenta un fondamentale sostentamento per le pensionate vedove.
La distribuzione territoriale è un altro campo dove si notano delle forti differenziazioni. Calcolando il coefficiente di pensionamento grezzo, ovvero il rapporto tra il numero di pensioni e la popolazione di ciascuna area vediamo che il Nord è in testa alla graduatoria con il 312 per mille seguito dal Centro con il 287 per mille mentre chiude il Mezzogiorno con il 265 per mille. Per quanto riguarda il tipo di pensione al primo posto è il Nord per la categoria di vecchiaia, seguita da centro e Sud, mentre l'ordine s'inverte per quelle d'invalidità previdenziale e le prestazioni assistenziali dove prevale il Sud.
Sono dati che riflettono inevitabilmente le contraddizioni che storicamente hanno caratterizzato lo sviluppo dell'economia capitalistica in Italia in confronto ad altri Paesi occidentali, specie del nord Europa. Qui da noi la donna è occupata stabilmente in misura notevolmente minore rispetto all'uomo e la morale cattolica le ha sempre affibbiato il ruolo di “angelo del focolare” dedita anzitutto al lavoro domestico, alla cura dei figli e all'assistenza degli anziani. Lo sviluppo ineguale del territorio ha invece caratterizzato il Nord con l'industrializzazione e il Sud come serbatoio di manodopera, magari da “aiutare” con l'assistenzialismo senza risolvere l'arretratezza del Mezzogiorno dopo 156 anni dall'unità d'Italia.
Se però proiettiamo lo sguardo in avanti per i futuri pensionati, cioè i lavoratori di adesso, la situazione si presenta ancora peggiore rispetto al passato. Le ripetute controriforme pensionistiche, prima tra tutte quello del governo della macelleria sociale di Monti, unite al dilagare del precariato che coinvolge milioni di persone, daranno come frutto amaro delle pensioni da fame.
Già adesso s'iniziano a vedere le conseguenze dell'innalzamento dell'età pensionabile, anzitutto il blocco dell'entrata nel mondo del lavoro dei giovani; non a caso l'Italia ha la disoccupazione giovanile più alta d'Europa. Per andare in pensione prima dell'età di vecchiaia oggi occorrono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Nel 2016 le pensioni anticipate sono crollate del 46,4% in un anno, passando da 158.589 a 84.988. Le donne, che hanno subito un maggiore prolungamento al lavoro, sono le più penalizzate: solo 29.333 sono riuscite a ritirarsi nell'anno appena passato. L'Inps registra un calo della spesa per le pensioni con la riduzione del rapporto della spesa pensionistica rispetto al PIL (prodotto interno lordo) passato in tre anni dall'11,8 al'11,3%.
Sarà destinata a dilatarsi ancora di più la distanza tra un pugno di pensioni d'oro, vitalizi e privilegi parlamentari che finiscono nelle tasche di manager di stato e deputati e la stragrande maggioranza delle pensioni dei lavoratori. Tutte le previsioni ci dicono che dipendenti e autonomi continueranno a pagare gli stessi contributi di adesso ma al termine della vita lavorativa avranno un assegno pensionistico da fame che si fermerà al di sotto del 50% del loro stipendio.
19 aprile 2017