Primarie del PD
Il nuovo duce Renzi vince ma con una base più ristretta
Tre partiti nel PD. Quello di Renzi guarda a destra, quelli di Orlando e Emiliano a sinistra
Con le primarie del 30 aprile, stravinte con quasi il 70% dei voti, Matteo Renzi è stato incoronato di nuovo segretario del PD diventandone ancor più di prima il padrone assoluto, ma paradossalmente con una base molto più ristretta e anziana rispetto alle primarie del 2013 con cui conquistò per la prima volta la leadership del partito.
Rispetto ad allora, infatti, non soltanto è calata vistosamente la partecipazione al voto, scesa da quasi 2,8 milioni a poco più di 1,8 milioni di votanti, segno evidente di una disaffezione dei militanti e dell'elettorato del PD cresciuta nonostante e proprio a causa dell'esperienza dei suoi quattro anni di guida del partito e del Paese; ma lui stesso ha perso oltre 600 mila voti rispetto alle precedenti primarie, e quel che è ancor più significativo è che la metà di questi li ha persi proprio nelle quattro regioni cosiddette “rosse” - Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche – roccaforti elettorali del PD e sue personali.
In queste regioni i partecipanti sono praticamente dimezzati, nonostante che egli abbia vinto con percentuali altissime. A Bologna, per esempio, se alle scorse primarie erano andati a votare in 71 mila, stavolta se se sono contati solo 45 mila. In Toscana, malgrado Renzi abbia stravinto con percentuali attorno all'80%, festeggiando il risultato come una grande vittoria, i votanti sono praticamente dimezzati, scendendo da 395 mila a 200 mila, e Renzi ha perso per strada quasi 143 mila voti, il 46,7% del pacchetto di voti ottenuto nel 2013. Ma forti crolli della partecipazione si sono registrati anche nel Nord e a Roma. In regioni come Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Piemonte, Toscana, Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta e Veneto, le perdite di Renzi oscillano tra il 40% e poco meno del 50% rispetto alle scorse primarie. Mentre in Lombardia ha perso il 31%, in Liguria il 39%, nel Lazio quasi il 25%, in Puglia il 26%, in Abruzzo il 32%.
Pieno di voti al Sud tra brogli e irregolarità varie
Solo al Sud il nuovo duce ha quasi ripreso i voti del 2013, come in Sicilia, Sardegna, Molise e Campania, o addirittura ne ha ottenuti di più, come in Basilicata e Calabria. Tanto che proprio il Sud è stato questa volta determinante, al contrario del referendum del 4 dicembre, per fargli vincere le primarie con così largo margine sui suoi due avversari, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che hanno ottenuto intorno al 20% il primo e intorno al 10% il secondo.
Ma è altrettanto vero che è proprio nelle regioni del Sud che si sono verificati diversi casi di sospetti brogli e irregolarità di ogni tipo, come quello clamoroso di Ercolano in Campania, dove a fronte di 300 iscritti al PD si sono registrati 5.000 votanti, di cui diversi migranti sembra prelevati da un vicino centro di accoglienza e portati a votare per Renzi, e secondo alcuni di loro intervistati, con i due euro necessari per votare già pagati e la speranza di essere agevolati nell'ottenimento del permesso di soggiorno. Sempre in Campania, a Minori, si è votato gratis con un “fondo cassa” messo a disposizione del PD locale. Il seggio di Nardò (Lecce) è stato chiuso causa “afflusso anomalo di esponenti della destra locale”. A Gela e Cariati (Cosenza), primarie annullate per irregolarità gravi. A Salerno, il feudo del governatore campano De Luca, 90% di consensi per Renzi. E così via.
Avendo fissato l'asticella della partecipazione minima a solo un milione di votanti, è stato comodo per il nuovo duce presentare queste primarie dimezzate come un “grande successo democratico” del PD e suo personale, come al solito aiutato nel rendere credibile questa sfacciata bugia dalla stragrande maggioranza dei media di regime, che l'hanno ripetuta fino alla nausea. Ma in realtà, non soltanto quasi un milione tra militanti ed elettori del PD che avevano partecipato alle precedenti primarie stavolta hanno disertato i gazebo, ma a votare sono andati praticamente solo gli elettori più anziani, e tra questi essenzialmente i pensionati, mentre i giovani e i lavoratori hanno voltato le spalle ai seggi e a Renzi.
Si restringe e invecchia l'elettorato delle primarie e di Renzi
Lo confermano in maniera concorde sia uno studio dell'Istituto Cattaneo che un sondaggio su “La Repubblica” illustrato da Ilvo Diamanti, dai quali risulta che quasi i due terzi (63%) dei votanti alle primarie del 30 aprile hanno più di 55 anni, di cui ben il 42% sono over-65, mentre questi ultimi erano solo il 29% quattro anni fa. Nel 2007, quando nacque il PD, gli over-55 erano un terzo, il 35%. ciò significa che in un decennio la quota dei votanti anziani alle primarie è raddoppiata. Viceversa i giovani elettori tra i 16 e i 34 anni sono calati dal 19% nel 2013 al 15% nel 2017. C'è stato dunque un netto invecchiamento della base elettorale delle primarie, e non dipende solo dall'invecchiamento naturale del Paese, perché la disparità vecchi-giovani è più marcata nel caso delle primarie rispetto a quella che si rileva nella popolazione italiana. Ed è più alta anche rispetto all'elettorato del PD nelle altre competizioni elettorali. Cioè il “popolo delle primarie” è più anziano del “popolo degli elettori del PD”. In netta controtendenza col passato, perché fino a ieri i votanti delle primarie erano più giovani rispetto all'elettorato del partito.
Secondo l'Istituto Cattaneo questo è un chiaro segnale dell'esaurimento dell'”effetto Renzi” sul PD, la cui massima rilevanza si era avuta con le europee del 2014, quando la quota di under-35 aveva superato il tetto del 20%. inoltre, sempre secondo il Cattaneo, è anche un segno che la recente scissione del PD non sembra aver cambiato la composizione anagrafica del suo elettorato, favorendo un suo “svecchiamento” come Renzi si poteva aspettare.
Per quanto riguarda la composizione sociale il 40% dei votanti alle primarie sono pensionati, e solo il 15% sono lavoratori del settore pubblico e privato. Renzi è il più votato tra gli over-65, che rappresentano ben il 45% della sua base, e il 40% dei suoi voti proviene dai pensionati. Un vero paradosso per chi come lui sguazza nella demagogia del “giovanilismo” e della “futurologia”.
Un rito per rilanciare le ambizioni del nuovo duce
Di certo la vittoria del nuovo duce era scontata e queste primarie, precedute da un congresso farsa sbrigato in poche settimane, erano solo un rito per far dimenticare la sua cocente sconfitta al referendum e riportarlo più solo che mai alla testa del PD e ripresentarsi di nuovo a candidato per Palazzo Chigi. Anche perché, dopo essersi liberato della sinistra interna di Bersani, Speranza e D'Alema, non erano certo Orlando ed Emiliano a potergli sbarrare la strada. Entrambi poco credibili come “avversari”, dal momento che il guardasigilli era sempre stato un fedele esecutore della sua controriforma della giustizia.
Quanto al governatore pugliese, si era già ampiamente autoscreditato quando minacciava di seguire gli scissionisti bersaniani, per poi decidere all'ultimo momento di restare dentro il partito per “fare impazzire Matteo”, salvo poi sparire quasi del tutto durante la campagna per le primarie. Vantandosi anzi, a primarie perse, di aver “portato a votare il Sud”: “Se non ci fossimo candidati cosa sarebbe rimasto? Tutto sarebbe stato renziano e la gente si sarebbe allontanata ancora di più dal partito”, ha confessato Emiliano svelando candidamente il ruolo di legittimazione del disegno renziano recitato di fatto dai suoi due avversari.
Renzi si riprende il PD e stringe sul governo
Con questa vittoria Renzi si è assicurato, con la sua lista e quelle a lui alleate di Maurizio Martina e di Dario Franceschini, ben 700 delegati dei 1000 dell'Assemblea nazionale, mentre a Orlando ne sono toccati 212 e a Emiliano i restanti 88. Si è assicurato anche il pieno controllo della Direzione di 120 membri, con 84 delegati contro i 24 di Orlando e i 12 di Emiliano. Più la presidenza del partito, alla quale è stato rieletto il fidato Orfini, imponendolo di forza al suo recalcitrante ex compare di corrente, Orlando, che ha votato contro, mentre Emiliano si è sfilato opportunisticamente dalla battaglia per “non rovinare il giorno di festa di Renzi”.
Quest'ultimo ha imposto anche l'inserimento in Direzione di 20 giovani “millennials” di sua fiducia (per “svecchiare” il partito, ha detto), provocando non pochi malumori nelle altre liste che per far loro posto hanno dovuto rivedere tutti gli equilibri raggiunti dopo faticose trattative. Ha anche aumentato la stretta su Gentiloni e il suo governo (che era in sala ad applaudirlo), annunciando la creazione di una “cabina di regia” al Nazareno, con la Boschi e la Finocchiaro, i rappresentanti dei gruppi parlamentari e i ministri volta a volta interessati, che d'ora in poi monitorerà tutti gli atti di governo. Con la fidata Boschi che avrà potere di controllare e controfirmare obbligatoriamente ogni provvedimento dei singoli ministeri.
Dentro il PD, che è ormai diventato a tutti gli effetti il partito di Renzi, coesistono perciò tre partiti in uno: quello di Renzi, che detiene la maggioranza azionaria assoluta, e che guarda a destra, verso Berlusconi e le “larghe intese”, e quelli in sedicesimo di Orlando ed Emiliano, che guardano a sinistra. Verso cioè Pisapia e il suo tentativo di rimettere in piedi un'alleanza elettorale di “centro-sinistra”, anche con gli scissionisti bersaniani e dalemiani di MDP. A lui guardano anche i prodiani, e forse a questo punto anche l'ex presidente del PD, Cuperlo, che per tutto ringraziamento del suo schierarsi per il Sì al referendum non è nemmeno entrato nella Direzione.
10 maggio 2017