Accordo ad Astana tra Russia, Turchia e Iran col beneplacito di Trump e Assad
La Siria divisa in quattro “zone di sicurezza”
Le opposizioni ad Assad respingono l'accordo
La prima conferenza di pace sulla Siria svolta sotto la regia di Russia, Iran e Turchia a Astana, in Kazakhstan, si era chiusa lo scorso 24 gennaio con un accordo complessivo sul cessate il fuoco che doveva essere osservato dalle forze delle tre potenze imperialiste e da quelle da loro controllate del regime di Assad e delle opposizioni legate a Ankara e ai paesi arabi. I tre paesi imperialisti confermavano la loro determinazione a combattere congiuntamente le organizzazioni definite “terroristiche” dello Stato islamico (IS) e di Fatah Al Sham (ex Al nusra). La guerra nel paese è andata comunque avanti con l'offensiva sulla capitale dell'IS Raqqa lanciata dall'imperialismo americano che si è appoggiato sulle Forze Democratiche Siriane (SDF), la cui componente principale sono le formazioni curde delle Unità di Difesa del Popolo (YPG), escluse da Astana quantomeno per volere di Ankara. E con interventi delle forze del regime di Assad contro le zone tenute dalle opposizioni e del fascista turco Erdogan contro i suoi principali nemici in Siria, i curdi.
Russia, Iran e Turchia hanno provato a fare un altro passo in avanti nel controllo e nella spartizione della Siria e nella seconda conferenza a Astana del 3 e 4 maggio hanno definito un accordo per la costituzione di quattro zone di sicurezza, situate in otto delle 14 province del paese, create a “protezione della popolazione civile”, in aree dove si scontrano direttamente le forze del regime di Damasco e le opposizioni. Il memorandum firmato ad Astana indica il termine del 4 giugno prossimo per la definizione dei confini di queste aree che saranno istituite nella provincia di Idlib e in parti delle province confinanti di Latakia, Hama e Aleppo; in un'area a Nord della provincia di Homs; a Ghouta, nella periferia Est di Damasco e la quarta a Deraa e Al Quneitra, nel Sud del paese vicino al confine con la Giordania. Una volta create, le zone rimarranno in vigore per un periodo iniziale di sei mesi, con possibilità di proroga. Fuori dall'intesa le tre aree del paese controllate dal governo di Damasco, Tartus e al-Suwayda, la parte nord sotto il controllo dei curdi e quella a est ancora dello Stato islamico e nelle mire di Trump.
Queste zone di sicurezza o di “de-escalation” saranno dotate di check-point e punti di osservazione lungo i confini in modo da costituire una doppia cintura protettiva per evitare scontri tra le parti in conflitto e “garantire il movimento dei civili disarmati, l'accesso degli aiuti umanitari e per facilitare le attività economiche”. Presidi degli ingressi e amministrazione delle zone messe in sicurezza “saranno assicurate dalle forze dei Garanti su base consensuale. Potranno intervenire terze parti se necessario su approvazione dei Garanti”, recita il memorandum di Astana dove le tre potenze firmatarie, i “garanti” dell'intesa, prevedono lo schieramento di loro contingenti militari lungo delle le linee di demarcazione in appoggio all'esercito di Damasco. Ma anche di forze di sicurezza internazionali, previo il loro consenso.
Una apertura subito colta dal ministro degli Esteri britannico Boris Johnson che ha dichiarato la disponibilità di Londra a mandare alcuni reparti; l'imperialismo inglese da troppo tempo si sente fuori dal gruppo che punta a spartirsi la Siria e altre aree del suo ex impero coloniale e non vede l'ora di tornare in prima fila.
Non la pensava nello stesso modo il regime di Damasco, che in teoria sarebbe il padrone di casa. Il regime di Assad aveva dato il suo beneplacito al memorandum ma il ministro degli Esteri siriano Walid Muallim precisava l'8 maggio che nelle quattro zone sicure “non saranno dispiegate forze internazionali sotto la guida dell'Onu o della Russia, ma sarà dispiegata la polizia militare”. E annunciava una prima applicazione del memorandum di Astana con il trasferimento di formazioni dell'opposizione e delle loro famiglie, oltre un migliaio di persone, dalla zona di Barzeh a quelle di sicurezza nel nord del paese.
“La messa in atto del memorandum permetterà di fermare le operazioni di guerra delle parti belligeranti e praticamente metterà fine alla guerra civile in Siria”, dichiarava il vice ministro della Difesa russo, generale Aleksandr Fomin, che sottolineava come il documento “è sostenuto da tutti i principali attori interessati, le Nazioni Unite, l'amministrazione Usa, la leadership saudita e altre autorità (fra le quali Israele, ndr) e questa è una garanzia certa che verrà messo in atto”.
Contro il memorandum di Astana si è pronunciata quantomeno una parte consistente della delegazione dell'opposizione siriana che lasciava anzitempo la riunione dichiarando “inaccettabile” ogni accordo di cessate il fuoco che non comprendesse “tutto il territorio nazionale” ma rigettavano in particolare ogni coinvolgimento dell'Iran e delle milizie ad esso legate nonché il ruolo Teheran come “garante della tregua”. Una posizione non nuova soprattutto nelle formazioni dell'opposizione appoggiate da Arabia Saudita e Qatar, piuttosto che in quelle sostenute dalla Turchia, che puntano a distruggere l'asse sciita, già piuttosto incrinato, tra Damasco e Teheran.
Il 10 maggio anche i curdi del Consiglio Democratico Siriano (MDS) contestavano il memorandum. L'amministrazione della ex Rojava e le forze del SDF sottolineavano che “questo accordo non include l’intero territorio della Siria poiché si riferisce a quattro regioni, ed è una distribuzione di controllo tra stati garanti ed il regime siriano. La popolazione siriana non ha vantaggi da questo accordo. Noi siamo preoccupati che questo accordo provocherà la ricaduta della crisi esistente in Siria in altre zone sicure, disgrega l’integrità del territorio e l’unità dei popoli, e porta la crisi siriana in una fase di conflitti settari e nazionalisti e perciò aumenteranno la morte e la distruzione”.
Il ministero degli Esteri russo, il 6 maggio, pubblicava ufficialmente il testo dell’accordo e sosteneva che il protocollo avrebbe previsto anche un’area di protezione per la zona controllata dai curdi nel Rojava, voluta da Mosca e sostenuta da Washington.
Via libera all'intesa invece dall'alleato in Siria dei curdi siriani, l'imperialismo americano, avvisato per tempo da Mosca della possibilità di creare delle “zone umanitarie” in Siria. Donald Trump e Vladimir Putin, rendeva noto la Casa Bianca, si erano sentiti per telefono il 2 maggio e avevano concordato che “la sofferenza in Siria va avanti da troppo tempo e che tutte le parti devono fare tutto il possibile per mettere fine alla violenza”, come se non fossero le due principali potenze responsabili della guerra siriana. Durante la conferenza Mosca e Washington si sono tenute in contatto tramite la delegazione giordana, presente come osservatore, e come sponsor di gruppi dell'opposizione a Assad nel sud del paese.
La fase dei rapporti tra Mosca e Washington, dopo i raid dell'aviazione americana sulle caserme dell'esercito di Damasco, è tornata di nuovo in positivo e segnata il 6 maggio dalla telefonata del capo di Stato maggiore dell’esercito americano Joseph Dunford al pari grado russo Valery Gerasimov per ripristinare lo scambio di informazioni tra i due eserciti sui sorvoli in Siria ma soprattutto per “continuare a lavorare su misure supplementari per prevenire conflitti nelle operazioni militari contro lo Stato Islamico e Al-Nusra”, i due principali nemici anche dei “garanti” di Astana.
17 maggio 2017