Discorso del capofila dell'imperialismo americano al vertice arabo islamico a Riad
Trump ai governanti arabi: Uniamoci contro lo Stato islamico
Il suo stretto alleato nazi-sionista Netanyahu perfettamente daccordo. Abbas si unisce alla coalizione anti “terrorismo”
Il re Salman: Siamo determinati a cancellare lo Stato islamico
Tra il 21 e il 23 maggio il presidente americano Donald Trump, con tutta la famiglia e lo staff della Casa Bianca al seguito, ha compiuto una visita in Arabia Saudita e in Israele, prima di volare a Roma per vedere il papa e a Bruxelles per il vertice Nato. Scopo della visita del capofila dell'imperialismo Usa a Riad e Gerusalemme era quello di rafforzare i già stretti legami politici, economici e militari con questi due alleati storici, e lanciare una santa alleanza imperialista, basata su questi due fidati pilastri nella regione, per isolare e distruggere lo Stato islamico.
Oltre a sancire gli accodi economici bilaterali per 400 miliardi di dollari, compresa una colossale fornitura per 110 miliardi di armamenti tra i più moderni e sofisticati al regno saudita, la visita di Trump a Riad ha avuto infatti un unico tema dominante in agenda: “la lotta al terrorismo”, ed espressamente all'IS, con la convocazione di un summit di 55 paesi islamici, una “raccolta storica e senza precedenti di leader, unica nella storia delle nazioni”, l'ha definita il capo della Casa Bianca, per dare vita ad una “Alleanza militare islamica per combattere il terrorismo”. Formulazione che ricorda la peraltro sciagurata “Coalizione dei volenterosi” di Bush per l'invasione dell'Iraq nel 2003, che ha provocato centinaia di migliaia di morti e che incendia da allora tutta la regione.
Nell'ambito di questa alleanza, come ha annunciato il re saudita Salman, “i paesi arabi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo hanno concluso un accordo storico con gli Usa per adottare ferme misure per far emergere il finanziamento al terrorismo, tra cui stabilire un centro a Riad diretto a scoprire le fonti finanziarie del terrorismo”: Un “nuovo Centro globale per combattere l'ideologia estremista”, copresieduto da Stati Uniti e Arabia Saudita e che, come ha sottolineato Trump, “rappresenta una chiara dichiarazione che i paesi a maggioranza musulmana devono assumere il comando della lotta alla radicalizzazione”. Quello che infatti il capofila imperialista è andato a chiedere ai paesi arabi, è una chiara presa di posizione e una dichiarazione di guerra contro lo Stato islamico, fugando qualsiasi equivoco in merito alle dicerie che esso sarebbe finanziato dalle monarchie sunnite del Golfo. E l'ha ottenuta.
“Questa è una battaglia tra il bene e il male”
“Qui a questo summit – ha detto Trump – noi discuteremo molti interessi che abbiamo in comune. Ma sopra ogni cosa noi dobbiamo essere uniti nel perseguire l'unico obiettivo che trascende ogni altra considerazione. Quell'obiettivo è l'appuntamento col grande test della storia: sconfiggere l'estremismo e liquidare le forze del terrorismo”. Ed ha anche segnato a dito quali sono queste “forze del terrorismo”: “ISIS, Al Qaeda, Hezbollah, Hamas e tanti altri”. “Questa è una battaglia tra il bene e il male”, ha insistito copiando Reagan e assumendo toni sempre più messianici. Fino a sbottare in un'arringa, tanto retorica quanto bellicosa, rivolta a tutti i paesi di religione musulmana: “Un futuro migliore è possibile solo se le vostre nazioni scacceranno i terroristi e gli estremisti. Scacciateli. Scacciateli dalle vostre comunità. Scacciateli dalla vostra terra santa. Scacciateli da questa terra”!
E qui ha esaltato i governi arabi già impegnati a combattere lo Stato islamico, come quello iracheno e quello giordano e i curdi a Mosul sostenuti dalle truppe americane; quello saudita che combatte contro i “terroristi” Houthi nello Yemen; quelli di Quatar, Kuwait e Bahrein che ospitano basi americane e i “soldati afghani coraggiosi” che combattono contro i talebani. “Dobbiamo anche tagliare i canali finanziari che consentono all'ISIS di vendere petrolio, che consentono di pagare i loro combattenti, e che aiutano i terroristi a far arrivare i loro rinforzi”, ha aggiunto.
Da parte sua Salman, rispondendogli anche a nome dei 55 paesi arabi e islamici convenuti a Riad, si è impegnato a “contrastare il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni, asciugando le sue fonti, fermando tutti i mezzi di finanziamento e diffusione del terrorismo”, e ad “affrontare con fermezza questo grave flagello dell'umanità”. E affinché non restassero ombre sulla sua determinazione a contribuire alla guerra fino in fondo allo Stato islamico, il re saudita ha solennemente sottolineato: “Come parte della nostra guerra al terrorismo, confermiamo la nostra determinazione a spazzare via l'organizzazione di Daesh (ossia lo Stato islamico, ndr) e altre organizzazioni terroristiche, indipendentemente dalla loro religione, setta o pensiero. Ecco perché abbiamo formato l'Alleanza militare islamica per combattere il terrorismo, da considerare un passo pioneristico per isolare il terrorismo”. E siccome il terrorismo è figlio dell'estremismo, “annunceremo oggi il lancio del Centro internazionale per la lotta all'estremismo”, ha aggiunto.
Salman non si è lasciato sfuggire l'occasione per attaccare il suo principale rivale nella contesa per l'egemonia nella regione, l'Iran, mettendolo nello stesso mazzo con ISIS, Al Qaeda, Houthi e Hezbollah. Lo stesso Trump gliene aveva fornito il destro, accusando l'Iran di essere responsabile “dell'instabilità della regione” e di “finanziare il terrorismo”. Ma lo ha fatto solo in coda al suo intervento, per il resto completamente rivolto alla guerra contro lo Stato islamico. Ciononostante i media, compreso “il manifesto” trotzkista, hanno centrato tutto su questo aspetto tutto sommato marginale dell'attacco all'Iran, che Trump ha dovuto concedere più che altro per blandire i sauditi e legarli più strettamente al suo carro. Così come del resto ha fatto poi anche con il governo di Israele.
Rilanciato l'asse di ferro Usa-Israele
Il secondo giorno Trump è volato direttamente da Riad a Tel Aviv, nonostante che tra i due paesi non esista un collegamento diretto. Allo sbarco è stato accolto dal presidente Rivlin e dal premier Netanyahu con l'intero governo, che gli hanno tributato un'accoglienza mai concessa ad altri ospiti stranieri, a sottolineare il legame speciale tra la nuova amministrazione Usa e i dirigenti nazi-sionisti di Israele. Tra l'altro erano in corso i festeggiamenti per i 50 anni della guerra del '67 e la conquista della Cisgiordania e dell'intera Gerusalemme. Mentre nei territori occupati era in corso invece lo sciopero generale in solidarietà con i prigionieri palestinesi che facevano lo sciopero della fame nelle carceri israeliane.
Trump si è incontrato prima col presidente Rivlin, che lo ha accolto così: “Siamo felici di vedere che l'America è tornata nella regione, l'America è tornata ancora”. Lui gli ha risposto: “Sono venuto in questa antica terra per riaffermare la durevole amicizia tra gli Stati Uniti e lo Stato di Israele”. Con lui ha discusso, come informa il sito della Casa Bianca, di “come raggiungere la pace in Israele sia in cima alle priorità della sua amministrazione, e come egli immagina che gli Usa e Israele lavorino ancor più strettamente insieme nei giorni a venire”. Col che i due presidenti hanno seppellito ufficialmente Obama e tutta la sua politica mediorientale, rilanciando con decisione l'asse di ferro tradizionale tra i due paesi.
Poi Trump ha incontrato Netanyahu, suo grande amico che lo ha accolto con tutti gli onori paragonandolo a Lincoln, chiamandolo confidenzialmente “caro Don”, mentre lui ricambiava con “caro Bibi”, e sempre insieme sono andati a pregare al muro del pianto. Trump è il primo presidente americano a visitare Israele subito dopo l'insediamento, e Israele è il primo paese estero da lui visitato, a parte l'Arabia. Con questo ha ricambiato Netanyahu, che è stato il primo capo di Stato straniero a fargli visita e a congratularsi entusiasticamente con lui. Trump è anche il primo presidente Usa in carica a recarsi al muro del pianto (anche Obama ci era andato, ma prima di essere eletto). Gli altri presidenti lo avevano sempre evitato, per non dare ai paesi arabi un segnale interpretabile come il riconoscimento di Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. Ma il capofila imperialista ha già promesso di spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme, e questo passo al muro del pianto conferma quindi la sua promessa ai governanti sionisti.
Anche col premier israeliano, come si apprende sempre dal sito della Casa Bianca, al centro dei colloqui Trump ha messo “l'importante lavoro di sconfiggere le ideologie violente e auspicato l'azione e il supporto di ogni nazione che aiuterà Israele e gli Stati Uniti in questo sforzo”. Il presidente americano ha discusso di “come lavorare anche più strettamente con Israele”, dicendo a Netanyahu: “Io credo che un nuovo livello di partnership sia possibile e lo sarà. Ciò che porterà più sicurezza a questa regione, più sicurezza agli Stati Uniti, e più prosperità nel mondo”. E con lui “ha condiviso anche la condanna dell'Iran come Stato che esporta terrorismo, dall'Iraq allo Yemen”. Oggi la superpotenza imperialista globale a stelle e strisce e la potenza imperialista regionale con la stella di Davide marciano quindi più unite che mai per dominare tutto il Medio Oriente e schiacciare ogni ribellione dei suoi popoli.
Anche Abbas nella coalizione anti “terrorismo”
Il terzo e ultimo giorno del suo viaggio, con la fugace visita a Betlemme, Trump è riuscito a tirare dentro il suo disegno imperialista e fascista anche il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmud Abbas, facendogli balenare davanti agli occhi il miraggio di una ripresa delle trattative di pace con Israele da lui personalmente garantite. Il suo generico impegno per un nuovo negoziato espresso durante la recente visita di Abbas a Washington lo ha ripetuto anche a Betlemme, con queste parole al vento: “Io sono impegnato a cercare di raggiungere un accordo di pace tra israeliani e palestinesi e intendo fare tutto il possibile per aiutarli a conseguire quell'obiettivo”. In realtà al suo amicone Netanyahu aveva già garantito che durante gli eventuali negoziati gli insediamenti dei coloni potranno andare tranquillamente avanti.
Appellandosi a lui come “Signor presidente e caro amico, Donald Trump”, Abbas si è speranzosamente aggrappato alla sua promessa, che dà al popolo palestinese “tanta speranza e ottimismo per la possibilità di far avverare un sogno, un sogno e un'ambizione a lungo attesi, cioè di una pace duratura e fondata sulla giustizia”.
Come contropartita ha offerto al suo “grande ospite” americano la “riaffermazione della nostra volontà di continuare a lavorare con lei come partner nel combattere il terrorismo nella nostra regione e nel mondo. A questo proposito – ha sottolineato Abbas - io plaudo all'importanza della tenuta del summit arabo-islamico-americano, ai suoi risultati e alle sue analisi e conclusioni”.
Nella sua risposta, ignorando completamente il timido riferimento di Abbas alle condizioni disumane in cui versano i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, e prendendo invece spunto dal sanguinoso attentato di Manchester, Trump non ha fatto altro che scagliarsi ossessivamente contro “i terroristi e gli estremisti” dell'IS, da lui definiti “perdenti”. E ha poi esaltato lo “storico evento” del vertice di Riad con i leader arabi e musulmani e con il “molto saggio” re Salman, per “chiamare questi leader ad unirsi in un'alleanza per togliere di mezzo il terrorismo una volta per tutte”. E a questo riguardo ha intascato come un atto scontato l'adesione di Abbas alla santa alleanza contro il “terrorismo” (quindi implicitamente anche contro la resistenza palestinese in tutte le sue forme eccetto quella puramente passiva) dicendosi compiaciuto “che il presidente Abbas si sia unito al summit e impegnato a fare decisi ma necessari passi per combattere il terrorismo e affrontare la sua odiosa ideologia”.
31 maggio 2017