Elemosina di Stato condizionata
Varato dal governo il decreto sul “reddito di inclusione”
Ai poveri da 188 a 485 euro al mese. Ma solo a meno della metà delle famiglie povere
Il 9 giugno, in attuazione di una legge delega già approvata dal parlamento nei mesi scorsi, il governo Gentiloni ha approvato un decreto legislativo che istituisce il cosiddetto “reddito di inclusione” (Rei): quello che il ministro del Lavoro Poletti aveva salutato come “un passaggio storico”, capace di rappresentare un efficace mezzo di contrasto contro la povertà, e che invece è solo un'elemosina di Stato che riguarda neanche la metà delle famiglie in condizioni di povertà assoluta, e che per giunta è limitato nel tempo e soggetto ad una tale quantità di condizioni da renderlo molto difficile da ottenere e mantenere.
Il Rei riguarderà infatti solo 660 mila famiglie povere assolute, di cui 560 mila con figli minori, su un totale ufficiale censito di 1.582 mila, quindi appena il 40% del totale delle famiglie in povertà assoluta. Ricordiamo che secondo la definizione dell'Istat le famiglie in condizione di povertà assoluta sono quelle “prive delle risorse economiche necessarie per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile”, che è un modo asettico per tradurre “ridotte alla fame” o “nella miseria più nera”. Famiglie che comunque rappresentano il 6% del totale in Italia (il 9% al Sud), mentre in termini di componenti rappresentano 4,6 milioni di persone, il 7,6% dell'intera popolazione (il 10% al Sud). Quindi non solo il Rei non è previsto per le famiglie in condizioni di povertà relativa, ma non riguarda neanche la metà delle famiglie in condizioni di povertà assoluta. Come si fa a parlare allora di “misura nazionale di contrasto alla povertà”, come se ne vanta il governo Gentiloni?
Questo per quanto riguarda la platea di poveri a cui questa misura è rivolta. Poi c'è il discorso sul suo ammontare, che è a dir poco ridicolo: si va da un minimo di 188 euro il mese per un nucleo di un solo componente fino ad un massimo di 485 euro per le famiglie di cinque e più componenti. Per il “reddito di inclusione” il governo aveva parlato di uno stanziamento di 2 miliardi l'anno, ma secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio le risorse reali stanziate allo stato attuale sono solo 1,2 miliardi nel 2017 e 1,7 miliardi per il 2018. Il resto dovrebbe arrivare dall'unificazione di altri sussidi esistenti. Cioè da un trucco contabile.
Risorse del tutto insufficienti
In realtà siamo ben al di sotto perfino delle risorse giudicate necessarie dal “Gruppo di lavoro sul reddito minimo” istituito dallo stesso ministero del Lavoro, per il quale occorrerebbero almeno tra i 5 e i 7 miliardi l'anno per avere un minimo di possibilità di incidere sulla povertà in Italia. La stessa stima è stata confermata nel “memorandum” firmato dal governo e dall'”Alleanza contro la povertà”, un cartello di associazioni cattoliche, sindacati e Ong che caldeggiano l'istituzione del “reddito per l'inclusione sociale” (Reis). “Si tratta di un primo passo che ne dovrà vedere di ulteriori”, c'è scritto nel memorandum: come dire che per il governo Gentiloni quanto stanziato ha da bastare, il resto se la dovrà vedere il governo o i governi che verranno dopo.
Ma, attenzione! Poiché la coperta è corta, anzi striminzita, sono state messe un'infinità di condizioni per la concessione di questa misera elemosina di Stato: innanzi tutto occorre avere un reddito familiare equivalente (Isee, che in futuro sarà inviato precompilato) non superiore a 6.000 euro l'anno e un reddito individuale massimo di 3.000 euro. Il patrimonio immobiliare, esclusa la prima casa, non deve superare i 20 mila euro e i risparmi non possono superare i 10 mila euro. Possono fare domanda anche stranieri dotati di permesso di soggiorno, ma devono essere residenti da almeno due anni. Sono esclusi proprietari di barche (sic) e anche di auto e moto se acquistate negli ultimi due anni. E la priorità sarà comunque data a famiglie con almeno un figlio minorenne, o con disabilità se maggiorenne, con donne in gravidanza o ultracinquantenni disoccupati.
Altra cosa assurda è che mentre l'assegno cresce con il numero dei componenti della famiglia, fino a 485 euro per una famiglia di 5 persone, oltre questa soglia l'assegno non cresce più, tanto che per le famiglie di 6 componenti si stima una perdita corrispondente di 1.375 euro l'anno, e per 7 componenti la perdita ammonta a 2.163 euro. E poi si parla di assegno, ma in realtà il Rei è in denaro solo in parte, perché per metà è corrisposto in “servizi”, e non si può ritirare in contanti ma solo spendere. Come cioè la vecchia social card di Berlusconi e Tremonti per gli ultrasessantacinquenni, da cui deriva chiaramente. Inoltre il Rei è incompatibile con il Naspi (assegno di disoccupazione), con l'Asdi (sussidio disoccupati al termine del Naspi) o social card disoccupati. In ogni caso l'assegno ha solo una durata di 18 mesi, rinnovabile per altri 12 dopo però una pausa di 6 mesi.
Un percorso ad ostacoli pretestuoso
Ma non basta ancora: la concessione del Rei è comunque subordinata all'accettazione di un “progetto personalizzato” di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato “all'affrancamento dalla condizione di povertà” (sic). Il soggetto o la famiglia che ne usufruiscono sono seguiti da operatori sociali del Comune che, tramite una “valutazione multidimensionale” fissano gli obiettivi da rispettare nella ricerca di un lavoro, di una casa, di una scuola, cure mediche ecc, fissando un calendario di impegni monitorati. Una procedura tutt'altro che chiara al momento attuale, che richiederà oltretutto un notevole aumento della burocrazia e delle relative spese, e che a fronte della drammatica disoccupazione e mancanza di abitazioni ad affitto socialmente sostenibile, non si vede proprio a cosa possa servire, se non come pretesto per diradare il più possibile i sussidi e accorciare il tempo di corresponsione dell'assegno.
Ma al di là di tutte queste considerazioni, la cosa più importante e che noi marxisti-leninisti non ci stanchiamo di ripetere, è che misure come questa del “reddito di inclusione”, o altre dello stesso genere come il “reddito di cittadinanza” proposto dal M5S, rappresentano un palliativo che serve solo a coprire, e per di più in misura ridicola, le colpe del sistema capitalistico e dello Stato Borghese al suo servizio, la più grave delle quali è la mancanza di lavoro, se non precario, supersfruttato e sottopagato.
Bisogna invece lottare per rivendicare il lavoro per tutti, a tempo pieno, a salario intero e sindacalmente tutelato, e per aumentare l'indennità di disoccupazione al salario medio degli operai dell'industria per un periodo non inferiore a 3 anni. E in questo quadro occorre lottare per abolire il Jobs Act e tutte le forme di precariato a partire dai nuovi voucher, imporre la stabilizzazione di tutti i precari nella scuola e nella pubblica amministrazione, rivendicare piani straordinari per l'occupazione, in particolare per il Mezzogiorno e per i giovani. Ma anche difendere e rendere effettivamente universali, efficienti e adeguati ai bisogni dei lavoratori e delle masse popolari il servizio sanitario pubblico, il sistema previdenziale pubblico e l'assistenza sociale alle famiglie disagiate. Tutto ciò non esclude nuovi strumenti di sostegno al reddito, ma tali strumenti devono integrare e non sostituire il diritto al lavoro.
5 luglio 2017