Primarie M5S flop: hanno votato solo 37 mila su 140 mila registrati sul blog
Di Maio eletto da quattro amici
San Gennaro non l'ha aiutato
Paghi uno e prendi due: Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e allievo prediletto di Grillo e Casaleggio, che da cinque anni era stato messo in pista e allenato proprio per questo, è stato ufficialmente incoronato candidato premier alla festa del M5S di Rimini. Solo che votandolo candidato premier gli iscritti al movimento hanno avallato anche la decisione di Grillo, presa all'improvviso una settimana prima della consultazione online, con la scusa che lo avrebbe imposto la legge elettorale e per “svincolarlo dalle correnti”, di nominarlo “designando capo della forza politica”. Alla faccia dell'“uno vale uno”, l'obiettivo è stato quello di conferirgli non solo il potere di scegliersi i ministri, ma anche gli ampi poteri previsti dal “non Statuto”, tra i quali quello di decidere le liste elettorali e avere l'ultima parola sui provvedimenti disciplinari. Quindi di farne un suo vero e proprio plenipotenziario, sotto il suo diretto controllo, per governare con pugno di ferro non solo il suo movimento, ma anche i gruppi parlamentari e l'intero suo eventuale governo: né più né meno di ciò che hanno già fatto prima di lui Berlusconi e Renzi, accentrando in un'unica persona i ruoli di leader di partito e di premier del governo.
Malauguratamente per lui e per il suo delfino, però, le cose non sono andate proprio lisce come previsto. Le elezioni online, che già si presentavano come una farsa, dal momento che Di Maio si confrontava solo con sette perfetti sconosciuti messi lì all'ultimo momento a fare da comparse, si sono anche rivelate un imbarazzante flop, avendo visto la partecipazione di solo 37 mila persone, su 140 mila iscritti certificati sulla piattaforma Rousseau gestita dalla società privata di Davide Casaleggio. Appena un iscritto su quattro. E di questi voti Di Maio ne ha presi circa 31 mila: un risultato alquanto misero, nettamente al di sotto delle pur prudentissime stime fornite da un suo fedelissimo, il deputato Danilo Toninelli, che aveva azzardato: “Avrei piacere se votassero tra i 70 mila e i 100 mila iscritti”.
Per di più la piattaforma Rousseau è andata più volte in tilt durante le votazioni, e ai molti che si lamentavano di non riuscire nemmeno ad entrarci veniva risposto che era colpa della “troppa affluenza”: una scusa ridicola, visti i risultati, aggravata dalle voci su un hacker che ha rivelato di aver votato decine di volte, e anche se il fatto è stato smentito categoricamente dal blog di Grillo, è certo che il sistema informatico di Casaleggio era stato pesantemente violato dagli hacker appena l'estate scorsa, e che tra i parlamentari pentastellati girava la voce che era in corso “un grosso attacco” informatico al movimento.
Crescono le contraddizioni interne al movimento
Infine, a guastare la festa a Grillo, Casaleggio e il loro prescelto Di Maio, togliendo in partenza credibilità alle “primarie” farsa e spargendo fino all'incoronazione e anche oltre incertezza, malumori e veleni, ci sono stati il dissenso quasi conclamato e il rifiuto di candidarsi di Roberto Fico, che hanno evidenziato l'esistenza di grosse contraddizioni interne al M5S, e il comportamento ambiguo di Alessandro Di Battista, anch'egli rimasto silenzioso e senza farsi avanti come tutti si aspettavano, riservandosi di spiegarne le ragioni con un video messaggio direttamente dal palco di Rimini.
Fico, deputato campano come Di Maio, presidente della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai e capo dell'ala cosiddetta “ortodossa”, è considerato di tendenze a “sinistra” e principale avversario di Di Maio, che rappresenterebbe invece l'ala “istituzionale” e di destra del movimento. Già un anno fa lo aveva attaccato dal palco della festa M5S di Palermo tuonando contro il “vippame” che inquinava il movimento cambiandone lo spirito movimentista originario, con chiaro riferimento alla sue frequentazioni di banchieri, manager e massoni internazionali.
Si ricordano fra l'altro le sue posizioni dure contro la Raggi, protetta di Di Maio, fino a chiederne le dimissioni dopo l'arresto del suo capo di gabinetto, Raffaele Marra. Come anche le sue prese di distanza dalla linea anti-immigrati e anti-Ong di Di Maio, al punto che dopo lo sgombero brutale dei profughi eritrei da piazza Indipendenza, mentre Di Maio difendeva apertamente i poliziotti (niente di strano da parte di uno che, come si legge nella sua biografia, da grande voleva fare il poliziotto), Fico dichiarava che “non si doveva arrivare a quel punto”.
Dalla parte di Fico stanno molti dei parlamentari campani, come il deputato Luigi Gallo, che aveva espresso pubblicamente il suo dissenso contro la nomina di Di Maio a capo del movimento, il deputato ex membro del Direttorio, Carlo Sibilia, e un senatore di peso come Nicola Morra, che pochi giorni prima della consultazione aveva rilanciato un suo post contro lo sgombero di Roma e che dichiarava pubblicamente di considerare la nomina a capo politico di Di Maio “solo una proposta”.
Tregua armata di Fico e mani libere per Di Battista
La risultante di queste contraddizioni è stata il rifiuto di Fico di presentarsi alle “primarie”, sia per non bruciarsi contro un vincitore già deciso in partenza, sia per non prestarsi a legittimarne politicamente l'elezione a candidato premier e soprattutto anche a capo del movimento. Tant'è che non è valsa nemmeno la scesa a Roma di Grillo per fare da “paciere” e che solo un'ora prima della proclamazione del “vincitore” Fico ha accettato di incontrarlo nel retropalco per un colloquio di “chiarimento”, peraltro dicono assai teso, e di parlare con Casaleggio e Grillo, “rassicurandoli” che non ha intenzione di lasciare il movimento.
Inoltre Fico non solo non è salito sul palco, ma non ha nemmeno applaudito la proclamazione di Di Maio, e ha tenuto a ribadire ad un'agenzia di stampa che “oggi il candidato premier è il capo della forza politica, ma la definizione è riferita alla legge elettorale: non è capo della vita politica generale del movimento. É una grande distinzione”. Quanto a Di Battista, nel suo messaggio video, ha sì confermato di essere rimasto a Roma solo per assistere alla nascita di suo figlio, ma ha anche detto di non essersi candidato “perché se sono libero da ruoli posso dare di più al movimento”: come dire che se per ora riconosce a Di Maio il ruolo di candidato premier, forse anche in base ad un accordo che si dice stabilito tra i due, non per questo intende rinunciare alla sua libertà d'azione nel M5S, anche magari per contenderne un giorno la leadership in caso di suoi passi falsi. Come per esempio una pesante sconfitta del suo candidato Cancelleri alle elezioni siciliane.
Da parte sua Di Maio ha fatto buon viso a cattivo gioco, dichiarando sotto una pioggia di coriandoli tricolore e assistito dall'officiante Grillo che “non è importante sapere quanti hanno votato (sic), ma parlare dei milioni di voti da prendere nelle prossime elezioni politiche”. E cercando di coprire la delusione con la retorica, ha detto di essere stato eletto “non per cambiare il M5S, ma per cambiare l'Italia e il Paese e per aiutarlo a risorgere”. Nemmeno San Gennaro l'ha aiutato a risollevare le sorti di questa triste e contestata investitura, nonostante che a due giorni dal voto si sia fatto fotografare a baciare il sangue del patrono partenopeo dalle mani del cardinale Sepe: una forca caudina che sembra ormai d'obbligo passare per tutti quei politici che partendo come lui da Napoli ambiscono a salire in alto, vedi prima di lui Bassolino e De Magistris.
Un leader affidabile per la grande borghesia
Del resto, nel suo lungo apprendistato da aspirante premier, Di Maio di forche caudine ne ha attraversate tante altre e ben volentieri, per cercare di accreditarsi come leader affidabile per la grande borghesia nazionale e internazionale, senza trascurare neanche la sua ala più reazionaria. Basti ricordare, tra le più recenti, la sua crociata contro le Ong operanti nel Mediterraneo per salvare i migranti, da lui definite sprezzantemente, strizzando l'occhio alla Lega neofascista e razzista e da buon ex dirigente missino, “taxi del mare”; il suo pranzo all'Ispi con Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e presidente del ramo italiano della Trilateral; il suo intervento ai primi di settembre al forum della grande finanza massonica nazionale e internazionale a Cernobbio; l'invito negli Stati Uniti da parte dell'università di Harvard, la visita alla city londinese e quella dell'anno scorso in Israele (altra forca caudina obbligata per tutti i leader italiani), e così via.
Non a caso, tra le prime dichiarazioni dopo la sua elezione, si è subito affrettato a fare due rassicurazioni: una rivolta all'interno, affermando che “noi siamo l'unico argine a quelli che sono gli estremismi in Europa”; e una all'esterno, sottolineando che pur non aderendo alle richieste di Trump di aumentare i contributi europei alla Nato, “questo non significa che il M5S voglia portare l'Italia fuori dalla Nato, o da quelli che sono gli accordi con i nostri partner in Occidente”.
27 settembre 2017