Meno soldi in busta paga per i lavoratori, più vantaggi alle imprese, meno entrate allo Stato, privatizzazione dei servizi
Il welfare aziendale demolisce lo “stato sociale”: va respinto
Da alcuni anni sentiamo parlare con sempre più insistenza di welfare
aziendale, spesso senza specificare e chiarire bene di che cosa di tratta. Questo genera confusione, del resto più che comprensibile perché la stessa parola welfare
non appartiene nemmeno alla nostra lingua ma a quella inglese. Si tratta dell'erogazione ai cittadini di servizi ritenuti essenziali, o comunque importanti, solitamente garantiti, almeno nel nostro Paese, da parte dello Stato. Prima tra tutti la previdenza, cioè le pensioni, e la sanità, ma anche l'assistenza agli anziani e l'educazione prescolastica come gli asili, inclusi i cosiddetti ammortizzatori sociali per i rischi derivanti dall’assenza di reddito in caso di malattia, maternità, infortunio, invalidità, disoccupazione. L'insieme di questi servizi viene comunemente chiamato “stato sociale”, welfare state
in inglese.
Di conseguenza quando parliamo di welfare
aziendale ci si riferisce agli stessi servizi erogati però dalle aziende che possono andare ben al di là di previdenza, sanità e scuola ma comprendere una serie di “benefici” (benefits
in inglese) che vanno dalla mensa ai buoni pasto, buoni spesa, contributi allo studio, fino a convenzioni con strutture per il tempo libero e lo sport (palestre, piscine). Il campo d'azione dei privati non è ancora ben definito ma può spaziare in tutti i settori. Come si può facilmente intuire non si tratta di una questione di poco conto, ma del passaggio di competenze prima quasi esclusive dello Stato ai privati e della gestione aziendalistica perfino della vita privata dei cittadini e dei lavoratori in particolare.
Un modello che in alcuni Paesi esiste da molto tempo, caratteristico delle nazioni anglosassoni e in special modo degli Stati Uniti. Esempi di welfare
aziendale non mancano di certo neanche in Italia: tra i più famosi ricordiamo quelli di Olivetti a Ivrea e di Marzotto a Valdagno che nelle aziende omonime lo usarono massicciamente. Un welfare
paternalistico, che voleva trasmettere l'idea del “buon padrone” e al contempo allontanare gli operai dai sindacati e dai partiti di sinistra. Si arrivò a costruire per i dipendenti e per le città dove si trovavano le fabbriche abitazioni, asili, orfanotrofi, scuole materne e case di riposo, teatri, impianti sportivi e palestre, piscine, istituti tecnici, scuole di musica, dopolavoro ricreativo e sportivo, soggiorni climatici, estivi ed invernali, per i dipendenti e le loro famiglie.
Quello attuale é molto diverso e non ha più quel carattere paternalistico e di forte impatto; è più “moderno”, personalizzato ed è gestito da manager o da apposite società che esistono specificatamente per sviluppare e gestire il welfare
privato sulla base delle particolarità dell'azienda e sulla tipologia dei dipendenti. Tutti e due i modelli, quello pionieristico e quello attuale, convergono però sullo stesso obiettivo: quello di aumentare la produttività e di tenersi buoni i dipendenti. In sostanza si tratta di una strada come un'altra per accrescere i profitti dei capitalisti e ridurre la conflittualità sociale.
Il welfare aziendale è sempre più favorito e incentivato dai vari governi borghesi attraverso una legislazione che lo rende economicamente vantaggioso per le imprese. Ma lo stesso Stato ha tutto da guadagnarci poiché le varie controriforme e l'introduzione del sistema contributivo hanno portato a una forte riduzione delle pensioni per cui si è pensato bene d'introdurre la previdenza privata che possa andare a sostituire almeno in parte quella pubblica. Non a caso questo settore è di gran lunga il più importante e crea un giro d'affari che gestisce 40 miliardi di euro annui.
Le stesse considerazioni valgono per i continui tagli alla sanità che hanno portato l'intervento pubblico a essere largamente inadempiente verso gli ammalati, verso le masse popolari, del Mezzogiorno in particolare. Aumenti dei ticket, ridimensionamento dei farmaci convenzionati, mancata assistenza domiciliare agli anziani hanno portato la spesa sanitaria ad incidere fortemente sul bilancio familiare. Non a caso nella “classifica” del welfare
alle spalle della previdenza si collocano i servizi e le polizze relative alla sanità che generano un giro d'affari in fortissima espansione, al momento valutabile in 4 miliardi di euro annui. Di fronte a queste cifre è più che comprensibile l'attenzione dei privati sulla gestione della previdenza e della sanità privata alimentata dal welfare
aziendale.
Questo si è sviluppato sopratutto quando è stato introdotto dalla contrattazione tra padronato e sindacati che ha portato il welfare
aziendale, fino a una decina di anni fa esclusiva delle grandi aziende, alla portata di quelle medie e piccole che costituiscono l'ossatura dell'industria e dell'economia italiana. In questo caso si parla di welfare
contrattuale o bilaterale perché inserito dai contratti nazionali di categoria e gestiti da enti paritetici tra padronato e sindacati. Le uniche, miserevoli concessioni economiche fatte dai padroni nei recenti rinnovi contrattuali, a partire da quello metalmeccanico, riguardano questo tipo di welfare
escludendo qualsiasi aumento di salario reale.
Lo sforzo di Cgil-Cisl e Uil per facilitare l'accettazione del welfare aziendale da parte dei lavoratori non è certo disinteressato. Con gli enti bilaterali gestiscono quote di welfare e quindi possiedono veri e propri interessi economici nella sua diffusione. Non è quindi un caso che il welfare aziendale sia ormai il protagonista di molti rinnovi contrattuali. Un recente rapporto su previdenza integrativa e enti bilaterali contava 536 fondi previdenziali con un giro di oltre 100 miliardi di euro (6% del Pil) e 260 fondi di sanità integrativa. Enti privati difficilmente controllabili, in cui risultano impiegate più di 10 mila persone. Tra questi molti sono sindacalisti o ex sindacalisti. Il sindacato da ciò incassa i gettoni di presenza per la partecipazione ai Consigli d’Amministrazione o di Gestione, che ammontano a milioni di euro all'anno. Il welfare aziendale, quindi, contribuisce anche al “mantenimento” dei sindacati e non solo delle aziende.
Un'altra ulteriore spinta all'utilizzo del welfare aziendale è giunto recentemente dai governi Renzi e Gentiloni. La legge di stabilità del 2016 e la manovra finanziaria per il 2017 hanno detassato una parte del salario (i premi) erogato dall'azienda. Se i soldi del salario differenziato anziché finire direttamente in busta paga vengono utilizzati per finanziare servizi sanitari e altri bonus, sono considerati totalmente esentasse. Una legge che lega indissolubilmente il welfare
alla produttività perché lo associa ai premi di produzione e al raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Tutto ciò rende estremamente appetibile per l'azienda versare fondi in favore del welfare
aziendale e spiega il perché di tanto entusiasmo da parte dei padroni che risparmieranno il 40% mentre i lavoratori avranno degli sgravi fiscali del 10%. Questo ha ampliato di molto i benefits
che le aziende possono erogare in sostituzioni di aumenti salariali diretti, creando un vero e proprio mercato del welfare privato con decine di
aziende che vendono reti welfare, fondi pensionistici integrativi, casse assicurative, scuole private, società in espansione che vivono del TFR e di parte del salario dei lavoratori, dei fondi regalati dallo Stato alle imprese, nutrendosi della distruzione dello stato sociale.
In sostanza di questo si tratta: della sostituzione del vecchio modello di welfare
universale a gestione pubblica con un welfare
aziendale e privato, di tipo corporativo. Un modello simile a quello USA dove senza copertura assicurativa non si potrà accedere alle cure sanitarie, senza pensione integrativa non si potrà usufruire di redditi durante la vecchiaia. Nonostante i sostenitori di questo cambiamento cerchino in tutti i modi di presentarlo come un “secondo pilastro” da affiancare a quello pubblico, come un suo rafforzamento, in realtà si tratta dello smantellamento del cosiddetto “stato sociale” figlio della stagione di lotte operaie, sindacali, giovanili e popolari che ha caratterizzato il nostro Pese dal dopoguerra fino alla fine degli anni '70 che porta solo svantaggi ai lavoratori e vantaggi ai padroni. Il welfare
aziendale non è un regalo dell’impresa, viene concesso in alternativa al salario. Per cui i lavoratori pagheranno due volte le pensioni, la sanità e altri servizi, prima con le trattenute in busta paga, poi con la rinuncia a una parte di salario.
I vantaggi per i lavoratori sono davvero minimi: si riducono a un 10% di detassazione su parte del salario e una presunta opportunità di poter scegliere il tipo di benefit,
possibilità quest'ultima
che riguarderà solo i dipendenti delle grandi aziende. La disparità tra i lavoratori è senza dubbio un tratto distintivo del welfare
aziendale, che ci riconduce a 50 anni fa, ai tempi delle mutue, l'assicurazione sanitaria obbligatoria che garantiva le cure mediche solo chi aveva un occupazione. Una situazione dalle mille sfaccettature, confusionaria ed estremamente differenziata e piena di disuguaglianze durata fino alla fine degli anni 70 del secolo scorso quando l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha garantito, entro certi limiti, universalità e uniformità.
Un altro svantaggio di non poco conto è la “fidelizzazione” del dipendente che viene spinto a considerare condivisibili gli interessi del capitalista. Vuol dire che il lavoratore viene frenato e ingabbiato da questo stretto rapporto con l'azienda per cui si farà di tutto per non essere licenziati, perché l’esclusione dal ciclo produttivo diventerà l’esclusione da ogni tipo di assistenza. Non a caso numerose indagini che comparano aziende con le stesse caratteristiche dimostrano che dove si adotta largamente il welfare
si ottiene un minore ricorso alla malattia, una minore conflittualità, e complessivamente una maggiore produttività che rimane uno degli obiettivi principali del welfare
aziendale.
Nel breve periodo non avremo più aumenti salariali diretti in busta paga ma solo quote di welfare
aziendale, e questo non sarà più facoltativo come in passato ma obbligatorio altrimenti si perderanno gli aumenti contrattuali. Nel lungo periodo avremo lo smantellamento dello “stato sociale” e la privatizzazione della previdenza e della sanità perché le quote fiscali risparmiate dalle imprese mancheranno allo Stato che continuerà con maggiore determinazione sulla strada dei tagli e della privatizzazione. Inoltre dobbiamo considerare gli effetti per così dire “collaterali” come il depotenziamento dello spirito di classe dei lavoratori spinti a collaborare alla produttività aziendale e quello degli interessi sindacali a gestire i soldi del velfare aziendale assieme a quella che dovrebbe essere la controparte padronale, a discapito della rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
I lavoratori non devono farsi abbindolare da chi presenta questa “riforma” come vantaggiosa e progressista e devono opporsi con tutte le forze a un modello sociale fondato sul welfare
aziendale e pretendere dai sindacati, specie dai confederali, di lottare per diritto universalistico a una sanità, a una previdenza e all'accesso ai servizi sociali indipendentemente dalla propria collocazione sociale, finanziato dalla contribuzione generale basata sulla tassazione progressiva.
15 novembre 2017