23° Conferenza Onu sul clima
La COP23 di Bonn registra un nuovo nulla di fatto
Nonostante i nuovi e continui allarmi degli scienziati, rimane ancora disattesa l’applicazione dei già insufficienti impegni di Parigi
L’anno in corso, il 2017, verrà registrato dai climatologi come uno dei tre anni più caldi di sempre. Secondo il rapporto provvisorio della World meteorological organization (Wmo) presentato alla Cop23, “è molto probabile che il 2017, segnato da numerosi fenomeni a forte impatto tra i quali uragani, inondazioni catastrofiche, ondate di caldo e siccità particolarmente nefaste, si classificherà tra i tre anni più caldi mai misurati”. Questo perché “l’aumento delle concentrazioni di biossido di carbonio, l’innalzamento del livello del mare e l’acidificazione degli oceani, tra gli altri indicatori del cambiamento climatico, proseguono senza sosta”. Il termometro dice che la temperatura media della superficie del globo per i primi 9 mesi dell’anno ha superato di circa 1,1 gradi quella dell’epoca preindustriale. E gli anni dal 2013 al 2017 sono già il periodo più caldo mai registrato nella storia. Il segretario generale della Wmo, Petteri Taalas, si è incaricato di lanciare l’allarme: “Abbiamo assistito a condizioni meteorologiche eccezionali – ha spiegato – per esempio dei picchi di temperatura a più di 50° in Asia, degli uragani di un’intensità record nei Caraibi e nell’Atlantico che hanno raggiunto l’Irlanda, delle inondazioni devastanti causate dal monsone che hanno colpito milioni di persone, o ancora una terribile siccità nell’Africa Orientale”. Le ripercussioni sulla salute, sulla qualità dell’esistenza e sull’ambiente sono devastanti poiché dal 1980 ad oggi il rischio di decessi o patologie dovute alle alte temperature è cresciuto progressivamente: tra il 2000 e il 2016 il numero di esseri umani coinvolti dalle ondate di caldo è aumentato di 125 milioni (oltre il 30% della popolazione mondiale vive in zone colpite da caldo estremo), mentre i profughi ambientali sono già un’emergenza mondiale, visto che nel solo 2016 circa 23 milioni e mezzo di persone hanno lasciato le case in seguito ad eventi meteorologici estremi (solo in Somalia ci sono stati 760 mila profughi interni). Questa è la premessa, disastrosa, che a Bonn in Germania ha aperto la 23esima conferenza mondiale dell’Onu sul clima, un appuntamento che avrebbe dovuto servire a consolidare l’accordo di Parigi, dotarlo di un regolamento per dargli gambe, rilanciando così gli impegni presi da tutti i paesi aderenti. Stavolta la presidenza è andata a Frank Bainimarama, Primo Ministro delle isole Fiji, il quale ha affermato come appaia sempre più evidente l’importanza di un’azione di contrasto immediata.
I lavori della COP23
Tuttavia, neanche la galassia ambientalista internazinale attendeva grandi risultati dalla ventitreesima Conferenza ONU sul Clima di Bonn andata in scena nelle ultime due settimane, ma di certo nemmeno l’ennesimo nulla di fatto, nonostante le dichiarazioni di intenti abbiano continuato a moltiplicarsi. E di quelle, in tutte le conferenze precedenti, ce n'è sempre stata abbondanza. Nei fatti, questa COP23 aggiunge poco o nulla a quanto già concordato a Parigi nel 2015. Tutte le maggiori testate, si sforzano per trovare significative buone notizie, cercandole ancora una volta nei soli buoni propositi. Su tutti, spicca l’impegno preso da una ventina di nazioni che hanno deciso di non utilizzare più il carbone entro il 2030, fra di loro Regno Unito, Canada, Italia e isole Marshall. La questione che però rende anche questo cruciale protocollo pressoché nullo è la mancata adesione dei principali Paesi che emettono gas serra quali
Cina, India, Germania e ovviamente gli Stati Uniti,
nell’aderire all’iniziativa. Va inoltre ricordato che al centro dell’attenzione della conferenza di Bonn c’è stata sicuramente la posizione degli Stati Uniti, oggi l’unico Paese a non essersi formalmente impegnato ad aderire alle previsioni dell’accordo sul clima di Parigi 2015, dal quale uscirà definitivamente nel novembre 2020 per volontà del governo fascista di Trump.
Ancora nulla di fatto sugli aiuti ai Paesi in via di sviluppo
All’interno degli accordi sul clima di Parigi, era prevista un’intesa finanziaria per cui i Paesi europei e del Nord America avrebbero dovuto aiutare economicamente le nazioni in via di sviluppo, prime vittime dei disastri naturali causati dal riscaldamento globale e dall’innalzamento del livello degli oceani. Ma a Bonn questo non è avvenuto, tantomeno sono emerse posizioni concrete e “timeline” determinate e precise. Uno smacco ancora più grave, se pensiamo che la conferenza appena conclusa era presieduta da un Paese tra i più colpiti dal cambiamento climatico. In sostanza, con una forte azione di lobby, l’Unione Europea, il Canada, gli Stati Uniti e l’Australia, tanto per citare i maggiori, hanno fatto si che nel testo conclusivo della COP23 si parlasse solo di un “incoraggiamento” per i Paesi ricchi a mobilitare fondi pubblici in direzione delle persone più colpite dai disastri ambientali. L’ennesima buona intenzione dunque, e nulla più. Come ben sappiamo, di buone intenzioni traboccano gli accordi, oltreché esserne “lastricato l’inferno”. L’unica notizia davvero positiva che possiamo rilevare e condividere è il continuo aumento di mobilitazione della cosiddetta “società civile” che a Bonn, per la prima volta, ed ancor più che a Parigi, ha visto Ong e associazioni indipendenti “sorpassare” in termini di presenza le delegazioni ufficiali dei governi dei 200 Paesi coinvolti. “Per la prima volta – spiega Maria Grazia Midulla, responsabile clima per il WWF Italia – il cuore della conferenza non è stato rappresentato dai negoziati ma da ciò che avveniva nella Bonn Zone, animata da organizzazioni non governative, dai cittadini e dalle iniziative dal basso”. L’importante, aggiungiamo noi, è che questa partecipazione delle popolazioni rimanga davvero indipendente e maturi comprendendo che la questione principale per poter davvero incidere sulle scelte energetiche e di sviluppo, sta ancora una volta nella questione di chi detiene il potere politico e non in un protocollo più o meno ambizioso espresso in una conferenza tutta interna al capitalismo.
La scienza smentisce Parigi
Durante la conferenza di Bonn, il Global Carbon Project, team di scienziati che stimano le emissioni globali di CO2 immesse in atmosfera ogni anno, ha rilevato che dopo 3 anni di crescita zero, tali emissioni riprenderanno a salire nel 2017 ad un ritmo, enorme visti gli impegni presi a Parigi, di circa il 2%. E questo già fa vacillare lo spessore della tanto decantata COP21 francese. Il colpo di grazia glielo conferisce poi l’Environment Program delle stesse Nazioni Unite che ha accertato la diminuzione delle emissioni ad appena un terzo del livello necessario per tenere le temperature globali al di sotto di un incremento di 2 gradi Celsius. Questo fallimento è rappresentato in particolare dall’insufficienza dei piani energetici nazionali, quello italiano compreso, ampiamente e spudoratamente inconsistenti. “Siamo lo spirito di Parigi”. Così la ministra tedesca dell’ambiente Barbara Hendricks (Spd) ha celebrato venerdì scorso la chiusura ufficiale della Cop23 a Bonn. Ed ha ragione poiché, nei fatti, gli impegni presi dalle nazioni a Parigi nel 2015 non sono stati mantenuti, Marrakech (COP22) e Bonn segnano il passo in sua piena continuità, rimandando tutto a Katowice, in Polonia, prossima puntata di questa pericolosa commedia capitalista.
22 novembre 2017