Zimbabwe
Il presidente Robert Mugabe si dimette
Spinto dall'intervento dei militari, dall'avvio da parte del suo stesso partito dell'iter parlamentare per l'impeachement e dalle manifestazioni popolari. Il ministro della Difesa Chiwenga giorni prima della crisi politica era in visita a Pechino
Il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, si è dimesso il 21 novembre e ha comunicato la sua decisione con una lettera inviata allo speaker del parlamento, secondo la procedura prevista dalla Costituzione. All'annuncio del presidente dell'assise di Harare i deputati facevano festa così come una folla che si riversava nelle strade danzando e suonando i clacson delle automobili.
“Io, Robert Gabriel Mugabe, sulla base dell'articolo 96 della costituzione dello Zimbabwe, presento formalmente le mie dimissioni. La mia decisione di dimettermi è volontaria e nasce dalla mia preoccupazione per il bene del popolo dello Zimbabwe e il mio desiderio di assicurare una tranquilla, pacifica e non violenta transizione di potere a sostegno della sicurezza, pace e stabilità della nazione”, scriveva l'ex presidente nella lettera che interrompeva la discussione in corso in parlamento sulla procedura di impeachment avviata dal partito Zanu-Pf al potere. Il partito dello stesso 93enne Mugabe, alla guida del paese per 37 anni fin dalla sua indipendenza, prima come premier dal 18 aprile 1980 al 31 dicembre 1987 poi come capo di stato dal 31 dicembre '87, che per una settimana aveva resistito alle pressioni dei militari, arrivati a schierare i carrarmati per le strade, e alle manifestazioni popolari che chiedevano le sue dimissioni.
La procedura di impeachment nel parlamento di Harare per destituire il presidente aveva preso il via nel pomeriggio del 21 novembre su iniziativa dello Zanu-Pf e avrebbe avuto un percorso rapido dato il consenso da parte della formazione di opposizione dell'Mdc, che aveva chiesto anche la convocazione di libere elezioni. Posto agli arrresti domiciliari dal 15 novembre, assieme alla moglie Grace Mugabe, su ordine del capo delle Forze di difesa dello Zimbabwe, Constantino Chiwenga, mentre i carrarmati prendevano posizione agli incroci delle strade nella capitale, abbandonato dal suo partito e dalla milizia dell'associazione dei veterani di guerra, Mugabe sembrava deciso a resistere alle richieste di dimissioni e aveva persino convocato in segno di sfida un consiglio di ministri per la mattina del 21 novembre, al quale si erano presentati solo cinque membri del governo.
Le dimissioni richieste a gran voce nella manifestazione del 18 novembre a Harare, al grido “Mugabe adesso basta, vattene”, annunciate in diretta sulla tv di Stato nella mattinata del 20 novembre erano rinviate al giorno successivo, pare per decisione dello Zanu-Pf che pur avviando il minacciato iter parlamentare per l'impeachement aveva scelto questa modalità prevista dalla Costituzione, con la comunicazione al parlamento, per evitare un atto di resa ai militari più simile a un golpe. Invece secondo quanto riferito dalla rete televisiva americana Cnn
, Mugabe si sarebbe accordato con i militari sulle condizioni delle sue dimissioni, annunciate pubblicamente nella lettera al parlamento. Fra le altre l'ex leader avrebbe ottenuto garanzie di piena immunità e la possibilità di mantenere diverse proprietà per sé e sua moglie. L'incarico presidenziale dovrebbe essere assunto dal vicepresidente Emmerson Mnangagwa pur essendo stato deposto dalla carica da Mugabe lo scorso 6 novembre. Quella decisione aveva mostrato chiarmente lo scontro in atto dentro lo Zanu-Pf contro le manovre del presidente che voleva assicurare la successione alla seconda moglie Grace Mugabe, un passaggio interrotto dall'intervento dei militari.
Mnangagwa, un veterano della guerra d’indipendenza e molto vicino alle forze di difesa zimbabwane aveva lavorato al fianco di Mugabe per 40 anni e dalla carica di vicepresidente era considerato come un suo possibile successore, in vantaggio comunque rispetto l'altro vice. Dopo la sua deposizione, il governo di Harare annunciava che avrebbe emendato la carta costituzionale per garantire che uno dei due vice-presidenti fosse una donna; un percorso che portava dritto all'incoronazione della candidata Grace, già diventata una sorta di primo ministro ufficioso e leader del gruppo della nuova generazione di politici all’interno dello Zanu-Pf, denominata “Generazione 40”, e della lega femminile del partito. L'operazione si sarebbe dovuta concludere con le elezioni politiche del 2018, alle quali Mugabe aveva già annunciato che si sarebbe ripresentato come candidato.
Il 13 novembre, una settimana dopo l'epurazione di Mnangagwa, che pare si fosse rifugiato momentaneamente in Cina, il generale Constantino Chiwenga minacciava l'intervento dei militari in caso di nuove epurazioni all’interno dello Zanu-Pf. Una minaccia chiara fatta nel corso di una conferenza stampa nella capitale Harare, all’interno del quartier generale dell’esercito, assieme ad altri 90 alti ufficiali, affermando che “l’attuale epurazione, che sta prendendo chiaramente di mira i membri del partito con un passato nella lotta d’indipendenza, deve cessare. Dobbiamo avvertire chi sta dietro a queste infide bravate che quando si tratta di proteggere la nostra rivoluzione, l’esercito non esiterà ad intervenire”. L'esercito si schierava nella guerra per bande all'interno dello Zanu-Pf dalla parte dei “veterani” e nella notte del 14 novembre entrava in azione. Il generale Sibusiso Moyo alla tv affermava che non si trattava di un colpo di stato ma che “l’obiettivo è di consegnare alla giustizia i criminali attorno al presidente Robert Mugabe, i quali stanno commettendo crimini che stanno causando sofferenze economiche e sociali nel paese”. “Una volta compiuta la nostra missione la situazione tornerà alla normalità”, assicurava Moyo.
La trattativa con Mugabe andava avanti per diversi giorni sotto l'egida di due ministri sudafricani inviati dal presidente Zuma a nome della Southern African Development Community (Sadc), l’organismo regionale guidato dal Sudafrica del quale lo Zimbabwe è parte. Non presente visibilmente sul campo ma certamente in azione dietro le quinte, il socialimperialismo cinese che nel tempo si è comprato da Mugabe uno spazio non indifferente nel paese.
Lo Zimbabwe è uno degli alleati più stretti della Cina in Africa, uno degli “amici di sempre” della Cina sostenne il presidente cinese Xi Jinping durante una visita di Stato nel 2015. Un amico del quale Pechino è il principale partner commerciale, con investimenti in oltre 128 progetti tra il 2000 e il 2012, e la principale fonte di valuta estera tanto che lo yuan dal 2016 è una valuta che ha corso legale nel paese. Non sembra quindi una pura coincidenza il fatto che, pochi giorni prima dell'intervento dei militari, il generale Constantino Chiwenga sia passato da Pechino. Non si può dire che fosse andato per annunciare la sua intenzione di arrestare Mugabe e garantire stabilità all'investitore cinese, però. “La visita di Chiwenga era un normale scambio militare concordato tra i due paesi”, avvertiva il ministero degli Esteri cinese che si dichiarava non al corrente dei dettagli della visita gestita dal ministero della Difesa. In ogni caso “la Cina segue da vicino la situazione nello Zimbabwe e spera che le parti interessate possano gestire adeguatamente i loro affari interni”, e gli affari esteri con gli altri paesi, sostenevano a Pechino, che rassicurava sul mantenimento dei “solidi rapporti economici” che legano i due paesi.
22 novembre 2017