Il governo di Suu Kyi, Nobel per la pace, perseguita i musulmani in Myanmar

 
Il 27 novembre papa Francesco è atterrato a Yangon per la prima visita di un pontefice in Myanamar, il paese che fino al 1989 si chiamava Birmania, accolto da un inviato del presidente della Repubblica, dai vescovi locali e da un centinaio di bambini e gruppi etnici in abiti tradizionali. Non presenti i musulmani Rohingya, dal 1982 ufficialmente considerati immigranti illegali dal Bangladesh, che vivono nella regione di Rakhine, o meglio vivevano dato che più dei due terzi dei quasi un milione di appartenenti alla minoranza etinca e religiosa sono stati costretti alla fuga oltreconfine dalla repressione dei militari birmani. Il cardinale Charles Maung Bo aveva esplicitamente avvertito Papa Francesco di non pronunciare nemmeno la parola Rohingya che “sia il governo che i militari ma anche la gente in generale, soprattutto gli appartenenti alla polizia, non gradiscono”. E così è stato, nonostante la vicenda rappresenti un crimine intollerabile diventato un caso internazionale dopo la denuncia financo dell'Onu e la vergognosa difesa della repressione dei militari da parte della leader Aung San Suu Kyi, ministra degli Esteri e consigliera di Stato, nonché premio Nobel per la pace nel 1991.
Proprio pochi giorni prima, il 24 novembre, i ministri degli Esteri del Bangledesh e del Myanmar, Mahmood Ali e Aung San Suu Kyi, avevano firmato nella capitale birmana Naypyidaw un accordo sul rimpatrio che “inizierà tra due mesi” degli oltre 600 mila i profughi musulmani Rohingya fuggiti dall'agosto scorso. Non è chiaro dove andranno dato che centinaia di villaggi sono stati bruciati o rasi al suolo dall'esercito.
La convivenza dei diversi gruppi etnici presenti nel paese, la maggioranza Bamar di religione buddista, e i minoritari Shan, Karen e Rohingya, è un problema che la dittatura militare ha pensato di risolvere col pugno di ferro. In particolare con la negazione dei diritti della minoranza musulmana che negli anni ha tentato di cacciare dalla regione di Rakhine verso il musulmano Bangladesh. Il governo di Dhaka fino allo scorso agosto ospitava circa 200 mila rifugiati ma si è trovato a fronteggiare un fiume di profughi quando a fine mese alle proteste della minoranza musulmana i militari hanno risposto con operazioni di guerra contro città e villaggi. Almeno 600 mila Rohingya attraversavano la frontiera mentre era sconosciuto il numero di morti e feriti tra la popolazione dato che il governo birmano impediva l’ingresso di osservatori internazionali e giornalisti nella regione e, contro ogni evidenza, sosteneva di non aver avviato nessuna operazione di pulizia etnica.
Aung San Suu Kyi, ministro degli Esteri ma di fatto leader del governo, taceva. Certo i vertici militari non hanno mollato il potere e in base alla Costituzione controllano tre importanti dicasteri e la politica del rapporto con le minoranze ma quando il 6 settembre scorso la ministra prendeva le difese dei generali definendo le accuse “un enorme iceberg di disinformazione messo in atto per creare problemi tra le diverse comunità” e sosteneva che la sua amministrazione “sta tutelando tutta la popolazione dello stato di Rakhine nel miglior modo possibile”, la sua complicità era evidente e per niente giustificata dalla sua difesa di una “democrazia giovane e fragile” che fatica a consolidarsi pur a tanti anni dalla fine ufficiale della dittatura.
A sollevare il velo di ipocrisia della Aung ci pensava l'Onu che l'11 settembre scorso denunciava come “le operazioni militari della Birmania contro i Rohingya sembrano applicare i principi della pulizia etnica” e l'alto Commissario dei diritti umani delle Nazioni Unite, di fronte alla Commissione Onu a Ginevra chiedeva che “il governo birmano, che ha negato l'accesso ai nostri osservatori, fermi subito la crudele operazione militare, sproporzionata e irrispettosa del diritto internazionale”.
La fine dell'intervento dell'esercito e l'intesa del 24 novembre col Bangladesh per il rientro dei profughi potrebbero aver aperto la via per una soluzione rispettosa dei diritti dei Rohingya in Myanmar, anche se è tutto da verificare. Nel frattempo il governo birmano ha incassato l'appoggio dell'imperialismo americano che, senza neanche perdere tempo a far finta di voler applicare sanzioni economiche mai decise come quello europeo, prometteva 40milioni di euro in aiuti umanitari e stringeva accordi militari. Sollevando le preoccupazioni della concorrente imperialista Cina, altro sponsor del governo birmano col quale ha in corso trattative per inserire il Myanmar nei progetti della nuova Via della Seta.

29 novembre 2017