Il capofila dell'imperialismo americano calpesta il diritto internazionale e la Risoluzione 181
dell'Onu
Rivolta del popolo palestinese contro la decisione di Trump su Gerusalemme
Appello di Hamas: “Intifada per la liberazione della Palestina”
La Lega araba: “risoluzione ONU contro gli USA”
“Al Quds (Gerusalemme) è araba, Al Quds è araba” scandivano i manifestanti palestinesi mentre si dirigevano verso lo schieramento dell'esercito sionista e rispondevano coi sassi alla pioggia di lacrimogeni per le strade di Gerusalemme l'8 dicembre uno dei tre giorni della “rabbia palestinese”, la protesta indetta da Hamas e dalle altre organizzazaioni della resistenza all'occupazione sionista contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di spostarvi fra un po' di tempo l'ambasciata oggi a Tel Aviv. La rivolta del popolo palestinese, segnata da nuovi morti e oltre 1.500 feriti nei tre giorni di proteste, ha dilagato da Gaza alla Cisgiordania e ha riaperto la battaglia per il riconoscimento dei diritti di un popolo, scritti solo sulla carta e financo nelle risoluzioni Onu, calpestati regolarmente e impunemente per 70 anni dai sionisti.
Una ondata di proteste univa tutto il mondo arabo e islamico in solidarietà col popolo palestinese, dalla Tunisia al Pakistan. Tra le ultime manifestazioni ricordiamo quelle dall'8 al 10 dicembre in Egitto, da Alessandria al Cairo dove i manifestanti marciavano al grido “Gerusalemme è araba”, e quelle in Libano dove l'11 dicembre si è svolta a Beirut la marcia per Gerusalemme organizzata da Hezbollah, col leader Nasrallah che parlando in un video trasmesso da maxi schermi ha appoggiato la nuova intifada palestinese e assicurato il sostegno della organizzazione della resistenza libanese contro Israele e gli Stati Uniti.
La decisione della Casa Bianca, resa nota in anticipo per rendere ancora più teatrale l'evento, era ufficializzata dalla firma pubblica di una apposita proclamazione da parte del presidente Trump il 6 dicembre. “Io, Donald J. Trump, Presidente degli Stati Uniti d'America, in virtù dell'autorità conferitami dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, dichiaro che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e che l'Ambasciata degli Stati Uniti in Israele sarà trasferita a Gerusalemme non appena possibile”, era scritto in fondo alla proclamazione firmata alla Casa Bianca dal capofila dell'imperialismo americano. Trump in sol colpo calpestava il diritto internazionale rappresentato dalle risoluzioni e pronunciamenti dell'Onu in merito, la Risoluzione 181 in particolare, e i diritti dei palestinesi dando seguito a una legge del Congresso Usa del 1985, la cui applicazione era stata finora rinviata di sei mesi in sei mesi dai presidenti succedutisi, da Clinton a Bush, a Obama; e allo stesso Trump sei mesi fa. A onor di cronaca Trump ha contemporaneamente firmato un altro atto che rimanda il trasferimento dell'ambasciata da Tel Aviv di almeno sei mesi ma il segnale è chiaro: gli imperialisti sionisti hanno il riconoscimento ufficiale dell'occupazione anche di quei territori non previsti dal famigerato atto di nascita di Israele e annessi di fatto. Il protettore imperialista americano riconosce Gerusalemme capitale di quella Grande Israele, sogno dei sionisti, cui affidare il ruolo di garante dei propri interessi nella regione, in tandem col regime reazionario arabo dell'Arabia Saudita.
Fin dalla sua nascita “lo Stato di Israele ha fatto la sua capitale a Gerusalemme, la capitale che il popolo ebraico ha stabilito in tempi antichi. Oggi Gerusalemme è la sede del governo di Israele, la casa del parlamento israeliano, la Knesset; la sua Corte Suprema; le residenze del suo primo ministro e presidente e il quartier generale di molti dei suoi ministeri del governo. Gerusalemme è dove i funzionari degli Stati Uniti, incluso il Presidente, incontrano le loro controparti israeliane. È quindi appropriato che gli Stati Uniti riconoscano Gerusalemme come capitale di Israele”, sosteneva il documento firmato da Trump, presentando come ovvia e naturale la decisione con gli stessi argomenti coi quali il boia sionista Benjamin Netanyahu lo ringraziava per il riconoscimento della “identità storica e nazionale di Israele”.
Al momento l'invito dei sionisti a seguire l'esempio degli Usa è stato accolto solo dalla Repubblica ceca che ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e rimandato a tempi migliori il trasferimento dell'ambasciata ora a Tel Aviv.
Fra i primi a essere avvisato della decisione, il presidente palestinese Abu Mazen, chiamato il giorno prima da una telefonata di Trump. “Il presidente Abbas ha avvertito Trump delle pericolose conseguenze che una simile decisione potrebbe avere sul processo di pace e sulla sicurezza e stabilità della regione e del mondo” era la ridicola e inefficace reazione del presidente palestinese, secondo quanto reso noto dal suo portavoce, e solo in un secondo tempo il leader palestinese denuncerà che “la decisione odierna di Trump equivale a una rinuncia da parte degli Stati del ruolo di mediatori di pace" e ordinava alla delegazione diplomatica palestinese di lasciare Washington e di rientrare in patria ribadendo che “Gerusalemme è la capitale eterna dello Stato di Palestina”.
“Il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele è una dichiarazione di guerra nei nostri confronti”, dichiarava il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, da Gaza e lanciava un “appello per una nuova intifada contro l’occupazione e contro il nemico sionista”. L'appello era ripreso dalle organizzazioni della resistenza palestinese che animavano la rivolta nei territori occupati. Haniyeh ricordava che il 9 dicembre 1987 aveva preso le mosse da Gaza la prima Intifada, la rivolta palestinese e indicava che “dobbiamo rilanciare dunque una lotta popolare generale”, “la forza che abbiamo costruito, la forza della resistenza, sarà un elemento determinante per la vittoria del nostro popolo che anela a tornare sulla sua terra”, sottolineava Haniyeh che ribadiva: “Gerusalemme è la capitale del popolo palestinese. Tutta la Palestina, dal fiume Giordano al mare è dei palestinesi”.
Seppur dettate dalla preoccupazione di tenere in vita il fantomatico processo di pace guidato dall'imperialismo, che nulla ha portato al popolo palestinese se non il rafforzamento dell'occupazione sionista, le reazioni dei paesi arabi e islamici hanno spaziato dalla formale “seria e profonda preoccupazione per una mossa che irrita i sentimenti dei musulmani nel mondo” dell'Arabia Saudita, il nuovo stretto alleato dei sionisti, alla condanna del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha definito il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele come “una linea rossa per i musulmani”, una linea che se valicata potrebbe portare fino alla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele. Solo Teheran usava toni adeguati: la decisione degli Usa è “segno di incompetenza e fallimento. La Palestina sarà libera e i palestinesi vinceranno”, dichiarava il leader iraniano Ali Khamenei. Nel mezzo la Lega araba il cui segretario generale dopo aver inutilmente invitato Trump a “evitare qualsiasi iniziativa capace di mutare lo status giuridico e politico di Gerusalemme” chiedeva una riunione del Consiglio di sicurezza dell'Onu per discutere la questione. Ben sapendo che qualsiasi azione dell'Onu sarà bloccata dal veto Usa. Come lo è stata la riunione straordinaria del Consiglio tenutasi il 6 dicembre che ha potuto solo registrare la contrarietà alla mossa di Trump da parte di tutti i suoi alleati, europei compresi. Fra questi l'Italia col presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che esortava a definire il futuro di Gerusalemme “nell'ambito del processo di pace basato sui due Stati, Israele e Palestina”. Una tale opzione oramai morta e seppellita, superata nei fatti dall'unica possibile, quella di uno Stato per due popoli.
Sia i paesi europei che quelli arabi comunque non facevano seguire alle parole i fatti, esprimevano condanne a parole ma nessuno al momento ha deciso di ritirare gli ambasciatori o congelare i rapporti diplomatici, quale misura minima necessaria. E solo il ministro degli Esteri libanese ha chiesto alla Lega Araba di imporre sanzioni a Washington.
13 dicembre 2017