57 Paesi islamici riuniti in Turchia
“Gerusalemme est è la capitale dello Stato di Palestina”
Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti si disimpegnano dal fronte anti Trump e anti Israele
Un milione di palestinesi in strada nella Striscia di Gaza
Il vertice straordinario dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) riunito il 13 dicembre a Istanbul ha dichiarato “Gerusalemme Est come capitale dello Stato di Palestina” e ha invitato “tutti i paesi a riconoscere lo Stato di Palestina e Gerusalemme Est come sua capitale” in risposta alla decisione del presidente americano Donald Trump di riconoscere la città capitale dei sionisti e trasferirrvi l'ambasciata oggi a Tel Aviv. Una decisione importante nonostante il grosso limite della sua azione nel quadro del processo di pace imperialista funzionale ai sionisti e della soluzione, che dovrebbe essere chiaro oramai sepolta, dei due Stati.
Il vertice dei 57 paesi islamici “rifiuta e condanna nei termini più forti la decisione unilaterale del Presidente degli Stati Uniti d'America che riconosce Al-Quds come la cosiddetta capitale di Israele, la Potenza occupante; la respinge come nulla e priva di qualsiasi legittimità e la considera un attacco ai diritti storici, legali, naturali e nazionali del popolo palestinese”, afferma la risoluzione finale che “considera che questa dichiarazione pericolosa, che mira a modificare lo status giuridico della città di Al-Quds Ash-Sharif, una grave violazione del diritto internazionale” e di tutte le pertinenti risoluzioni Onu e ne chiede “l'immediata revoca” da parte degli Usa.
Tale decisione era denunciata come “un incoraggiamento di Israele, la Potenza occupante, a continuare la sua politica di colonialismo, insediamento, apartheid e pulizia etnica che ha praticato nel territorio palestinese occupato nel 1967, e nella città di Al-Quds Ash-Sharif” e nel “riaffermare la centralità della Causa della Palestina e di Al-Quds Ash-Sharif nei confronti della Ummah musulmana” i paesi islamici presenti a Istanbul “rinnovano il sostegno di principio al popolo palestinese nella sua ricerca per raggiungere i suoi diritti nazionali inalienabili, incluso il diritto all'autodeterminazione e l'istituzione del loro stato indipendente e sovrano palestinese ai confini del 4 giugno 1967, con Al-Quds Ash-Sharif come sua capitale”.
Si tratta della soluzione dei due stati con Gerusalemme Est come capitale dello Stato di Palestina, alla cui realizzazione il vertice Oic chiama l'Onu. Anzitutto chiede al Consiglio di sicurezza “di assumersi immediatamente le proprie responsabilità e riaffermare lo status giuridico della città di Al-Quds Ash-Sharif e porre fine all'occupazione israeliana della terra dello Stato di Palestina, al fine di garantire la protezione internazionale di il popolo palestinese, e attuare e rispettare tutte le sue risoluzioni sulla Causa palestinese”; dato che il Consiglio e le sue decisoni vincolanti potrebbero essere bloccati dal veto Usa, i paesi islamici si rivolgono in seconda battuta all'Assemblea generale, il cui intervento però ha solo valore politico.
La dichiarazione finale del summit dell'Oic era salutata come “un messaggio di speranza e di sostegno lanciato dai leader musulmani al popolo palestinese” dall'Autorità nazionale palestinese e dal presidente Abu Mazen che auspicavano “il dialogo tra i vari Paesi arabi anche su altri terreni” per arrivare a “una pace stabile e duratura in Medio Oriente”.
L'unità raggiunta sul comunicato di Istanbul non ha nascosto infatti le divisioni interne al mondo arabo e musulmano segnate principalmente dallo scontro per l'egemonia locale tra i regimi di Turchia e Arabia Saudita, con l'Egitto non spettatore ma al momento nel mezzo tra i due. Due fronti sunniti che si sono fatti la guerra per procura in Siria contro il regime di Assad, ma divisi da tempo fin nel sostegno a componenti diverse delle cosiddette “primavere arabe”, dall'Egitto alla Libia, dove la Turchia viaggiava di concerto con lo “scomunicato” Qatar a sostegno delle parti uscite sconfitte. Se gli imperialisti di Riad possono contare sul legame storico con l'imperialismo americano e su quello in via di consolidamento coi sionisti di Tel Aviv, Ankara ha cambiato padrino e si appoggia al rivitalizzato imperialismo russo di Putin.
Il dittatore turco Erdogan ha organizzato il vertice staordinario e utilizzato la tribuna per proporsi come paladino della causa palestinese, mollata dai paesi arabi reazionari e difensore di al-Quds,. In apertura del vertice denunciava che “Israele è uno Stato occupante e terrorista, i suoi soldati sono terroristi che uccidono bambini di 10 anni e li arrestano” e ribadiva che la questione di Gerusalemme “è la nostra linea rossa” rivolgendosi ai rappresentanti dei 57 paesi e organizzazioni musulmane partecipanti al vertice ma soprattutto al mondo islamico per il quale al-Quds, Gerusalemme con la Spianata delle moschee, è il terzo luogo santo dell'Islam, dopo la Mecca e Medina che sono in Arabia saudita.
Le sparate del dittatore turco erano mitigate dal padrino russo col portavoce di Putin, Dimitri Peskov, che precisava come “la posizione del leader turco non corrisponde alla nostra”, per non complicare i rapporti appena ripristinati con l'Arabia Saudita e tenere il ruolo di garante della spartizione di aree di influenza e della pace imperialista nella regione.
A Istanbul, la divisione politica del mondo sunnita era sottolineata dall'assenza dei vertici di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Egitto, rappresentati da ministri di seconda fascia a conferma del disimpegno di questi paesi dal fronte anti Trump e anti Israele. D'altra parte risulterebbe difficile pensare che la mossa di Trump sia avvenuta senza un preavviso particolare almeno a Riad e al Cairo; senza contare che in anticipo sulle decisioni del vertice Oic, re Salman dell’Arabia saudita aveva indicato solo in Gerusalemme Est la capitale palestinese, lasciando intendere che la parte Ovest della città poteva essere la capitale di Israele. Ancora peggiore la posizione del figlio e erede al trono Mohammed Bin Salman che il mese scorso aveva accolto il presidente palestinese Abu Mazen a Riad proponendogli di “non considerare più Gerusalemme, ma piuttosto Abu Dis (una città palestinese vicino a Gerusalemme, ndr) come futura capitale di un possibile stato palestinese”, una posizione smaccatamente filosionista contestata persino da alleati come Marocco e Giordania.
Il 13 dicembre, gli imam sauditi delle moschee alla Mecca e a Medina non hanno detto neanche una parole sulla questione di Gerusalemme durante i loro sermoni del venerdì; per Riad la questione non esiste più, è già chiusa. Non lo è invece per i palestinesi come confermava il milione di manifestanti in piazza nelle città della Striscia di Gaza, sotto l'assedio dell'occupante sionista, coi militari di Tel Aviv che sparavano contro i palestinesi che si avvicinavano alle barriere di confine e ne assassinavano due. Un terzo giovane palestinese era ucciso nella stessa giornata nel villaggio di Anata in Cisgiordania dove i manifestanti venivano attaccati dall'esercito e dalla polizia sionista per reprimere le proteste che si svolgevano a Gerusalemme, Nablus e in altri villaggi, con un bilancio di oltre 160 palestinesi feriti.
20 dicembre 2017