Seth (Onu): “Il più grande furto della storia”
Le donne al mondo guadagnano in media il 23% in meno degli uomini
La discriminazione salariale è globale e riguarda tutte le fasce di età, qualifiche e tipi di lavoro
Dal rapporto Oxfam sulle diseguaglianze – un vero e proprio quadro sui fallimenti strutturali del capitalismo – esce un'altra amara realtà vissuta quotidianamente dalle donne, soprattutto le donne lavoratrici, proletarie, povere e meno abbienti: la discriminazione salariale rispetto agli uomini persiste e le donne guadagnano in media il 23% in meno. Con buona pace di chi finge di non vedere e sostiene che si tratta di cose da Ottocento che il mondo occidentale si sarebbe ormai lasciato alle spalle.
Non è così se persino Anuradha Seth, consigliera economica del Programma di sviluppo dell'Onu, quindi non certo sospettabile di anticapitalismo, ha detto, dati alla mano, che non c'è “un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini”. Fatto che l'ha spinta a definire la discriminazione salariale di genere “il più grande furto della storia”.
In generale, le donne guadagnano meno perché si trovano perlopiù in settori a basso reddito, lavorano meno ore retribuite e comunque percepiscono meno anche a parità di lavoro. Negli Usa, ad esempio, una donna guadagna in media 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo, a livello annuale percepisce mediamente la metà. E gli Usa, con una differenza del 18,6%, non sono nemmeno i peggiori al mondo: in Corea del Sud, per esempio, il divario è di ben il 36%; è del 25,7% in Giappone, del 17,1% in Regno Unito e del 15,7% in Germania. Meglio il Lussemburgo con meno del 5%. Il divario si allarga in caso di maternità: ogni nascita penalizza le madri in media del 4%, mentre per il padre c'è un aumento del 7%, contribuendo alla schiavitù domestica delle donne e alla loro dipendenza dal partner.
Sulle percentuali del divario c'è da fare una precisazione per quanto riguarda l'Italia. Secondo Eurostat, il divario nel nostro Paese sarebbe di appena il 5%. A prima vista è un fatto positivo e non pochi media ci hanno spinto per difendere una presunta virtuosità italiana. Basta uno sguardo alla vita reale per sentire la puzza di bruciato, come sanno bene del resto le donne lavoratrici che vivono in prima persona questa insopportabile discriminazione. Infatti, queste statistiche si riferiscono alla paga oraria in generale ma non tengono conto di molti fattori. Innanzitutto la popolazione femminile occupata è di appena il 48,9% e si concentra nei servizi, nel commercio e nei lavori impiegatizi, che sono fra i settori con i salari più bassi. Anche fra dirigenti e manager, il divario è in media del 23% a sfavore delle donne. Ma, rileva il “Gender Gap Report 2017” di JobPricing, la differenza nella retribuzione annuale lorda nel settore privato vede le donne italiane perdere circa 3000 euro l'anno in salari rispetto agli uomini e, in proporzione, le differenze sono maggiori fra operaie e operai che fra manager.
In generale il capitalismo ha sfruttato gli anni della crisi per massimizzare i profitti e cancellare o ridurre fortemente la spesa sociale, abolendo o aggiranto tutto ciò che esisteva a garanzia miima dei lavoratori e delle lavoratrici. Non stupisce quindi questa accentuata discriminazione lavorativa contro le donne, che poi si inserisce nel quadro più ampio del rigurgito maschilista sotto gli occhi di tutti, per esempio, con la violenza sulle donne: sono le promesse di uguaglianza e benessere del capitalismo che continuano a infrangersi. L'Onu infatti denuncia che il divario di genere si è acuito nel 2017, anziché ridursi, e calcola che ci vorranno più di 70 anni per mettere a posto la bilancia.
Questo, oltre a ribadire l'urgenza di lottare per la parità salariale e lavorativa, chiama in causa anche due visioni opposte dell'emancipazione femminile, che riguarda in primo luogo proprio il lavoro: da una parte quella liberale e borghese con l'affermazione individuale delle donne manager o in politica (accettando così le posizioni offerte dal capitalismo, che finora si sono rivelate subordinate, e soprattutto facendo propria la sua cultura di competizione individuale), e quella rivoluzionaria e collettiva che vuole estirpare le radici del sistema economico e dei rapporti sociali che determinano questa diseguaglianza.
Sta nella natura stessa del capitalismo, con la sua concezione patriarcale, relegare le donne al lavoro domestico per fare da tampone al taglio dei servizi sociali. Una situazione che, come vediamo, è ancora ben presente nonostante siano passati cinquant'anni dalle grandi lotte femminili del Sessantotto. E lo dice persino l'Onu! Un'ennesima dimostrazione che l'occupazione piena, stabile e ben remunerata delle donne è in conflitto con l'organizzazione sociale del capitalismo stesso.
31 gennaio 2018