Lo denuncia il pm Di Matteo al processo di Palermo
Scalfaro regista della trattativa Stato-Mafia
Berlusconi cercava Riina
Chiusa a dicembre l'istruttoria dibattimentale, dopo oltre 200 udienze si sta avviando ormai verso la conclusione il processo sulla trattativa tra Stato e mafia, che si celebra davanti alla Corte d'Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto.
Iniziato nel 2012 e più volte oggetto di interventi anche da parte del nostro giornale, il processo è entrato ora nel vivo con le requisitorie dei quattro rappresentanti dell'accusa, i pm Di Matteo, Teresi, Del Bene e Tartaglia che stanno ricostruendo i fatti della trattativa tra lo Stato e la mafia che vedono sul banco degli imputati nove persone, delle quali ora soltanto tre (Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà) sono esponenti di spicco di Cosa Nostra, mentre Massimo Ciancimino, figlio del mafioso Vito Ciancimino, è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Giovanni De Gennaro.
Gli altri cinque imputati sono uomini appartenenti alle istituzioni dello Stato, ossia l'ex comandante del ROS dei carabinieri Antonio Subranni, l'ex comandante del ROS ed ex direttore del Sisde Mario Mori, l'ex braccio destro di Mori al ROS Giuseppe De Donno e l'ex parlamentare di Forza Italia nonché braccio destro di Berlusconi in Mediaset Marcello Dell'Utri, accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario, mentre l'ex ministro democristiano dell'Interno Nicola Mancino è accusato di falsa testimonianza.
Le posizioni dei capimafia Bernardo Provenzano e Calogero Mannino, nel frattempo deceduti, sono già state stralciate, mentre quella di Salvatore Riina, morto lo scorso dicembre, è in corso di stralcio.
All'inizio degli anni Novanta ci fu una vera e propria trattativa tra i massimi rappresentanti della mafia e, come si vedrà, alcune delle massime cariche istituzionali dello Stato italiano, fino all'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, al fine di raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, che nel 1993 colpirono Roma, Firenze e Milano, in cambio dell'attenuazione delle misure detentive per i mafiosi condannati in massa a pene elevatissime a seguito della sentenza del maxi processo nel gennaio 1992.
Che la trattativa ci sia stata è un fatto già accertato al di là di ogni dubbio nelle motivazioni della sentenza con la quale la Corte d'assise di Firenze nel 2011 condannò il boss Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili, motivazioni ribadite dalla Corte d'assise d'appello di Firenze nel 2016 e confermate infine dalla Cassazione. Inoltre la prova della trattativa appare anche in un rapporto del Sisde del 20 agosto 1993, ritrovato dopo 20 anni in un archivio dai magistrati palermitani, in cui è scritto testualmente che da quelle stragi i mafiosi si proponevano di “ricavare nuove forme di trattativa miranti ad ottenere forti sconti di pena nell'ambito di una più vasta e generale pacificazione sociale necessaria all'instaurazione del nuovo ordine costituzionale”, e non è certo un caso che il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Capriotti propose, nel giugno del 1993, la revoca del regime del carcere duro per oltre 300 mafiosi e che la strategia stragista fu abbandonata dai massimi esponenti dell'organizzazione criminale nel 1994 quando sulla scena politica apparve Forza Italia capeggiata da Berlusconi e Dell'Utri, partito grazie al quale il boss Graviano, secondo quanto riferisce il collaboratore di giustizia Spatuzza, disse che la mafia si era messa “il Paese nelle mani”.
Infatti dopo l'emissione della durissima sentenza del maxi processo la mafia, in base a quanto ricostruito dai pm di Palermo, decise di eliminare - tra gli uomini appartenenti alle istituzioni - sia gli amici ritenuti ormai non più affidabili, come l'eurodeputato ed ex deputato della DC Salvo Lima e l'appaltatore della riscossione delle imposte in Sicilia Ignazio Salvo, sia i più strenui avversari, come i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutti assassinati tra il marzo e il settembre del 1992.
Cosa Nostra, secondo quanto ricostruito dai pm palermitani, iniziò a ricattare pesantemente i vertici dello Stato già prima dell'arresto di Salvatore Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, al fine di costringere le istituzioni a mitigare le restrizioni carcerarie inflitte dalla legge ai mafiosi: furono così organizzati una serie di attentati dinamitardi durante il 1993 a Roma, Firenze e Milano per mettere in ginocchio le istituzioni, cosa che indusse effettivamente lo Stato a scendere a patti con la mafia, e la trattativa proseguì anche dopo l'arresto dello stesso Riina.
L'impianto accusatorio del processo si fonda, tra l'altro, sulle testimonianze di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, e dell'ex esponente di spicco della mafia Giovanni Brusca: Ciancimino ricostruì tutti gli incontri che avvennero tra i tre imputati appartenenti all'arma dei carabinieri e il padre, mentre Brusca ha reso noto l'esistenza del cosiddetto 'papello', cioè la lista di richieste di Totò Riina allo Stato, e nello specifico dirette all'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino, che ricoprì tale carica dal giugno 1992 all'aprile 1994.
I pm palermitani però non si sono fermati a Mancino, ma hanno da sempre ritenuto che anche l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro sia stato pienamente coinvolto, pur celandosi dietro le quinte istituzionali, nella trattativa con i mafiosi, e in tal senso va interpretata la clamorosa decisione dei pm di Palermo di sentire come testimone il 28 ottobre 2014 l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che tra il 1992 e il 1994 ricopriva la terza carica istituzionale dello Stato come presidente della Camera e che dal 1996 al 1998 sarebbe diventato ministro dell'Interno, al fine di verificare non soltanto se quest'ultimo fosse a conoscenza della trattativa, ma anche se presso gli uffici della Presidenza della Repubblica vi fossero elementi riconducibili al suo predecessore Oscar Luigi Scalfaro - presidente della Repubblica dal 1992 al 1999, deceduto nel 2012 - nella trattativa stessa.
All'epoca della deposizione di Napolitano ampi settori della stampa, e per ciò che ci riguarda Il Bolscevico n. 41 del 13 novembre 2014 in un ampio articolo a p. 9, misero in risalto che non solo la deposizione di Napolitano era tutt'altro che convincente, piena di contraddizioni e reticenze, anche se con qualche ammissione. Il menzionato articolo de Il Bolscevico così concludeva, a proposito della conoscenza dei vertici dello Stato sulla trattativa in corso: “Se non lo sapevano lui, Spadolini, il presidente Scalfaro, Ciampi, Mancino e Conso, che erano le massime autorità politiche e istituzionali rappresentanti lo Stato in quel momento, chi altri potrebbe saperlo?”.
Alla luce di tutto ciò non stupisce che, nella sua requisitoria svolta lo scorso 11 gennaio, il pubblico ministero Nino Di Matteo ha ricostruito il clima politico italiano all'epoca della trattativa, in particolar modo riferendosi all'elezione alla carica di presidente della Repubblica di Oscar Luigi Scalfato il 28 maggio 1992, dopo che a gennaio era stata emessa la sentenza del maxi processo e dopo l'assassinio, il 23 maggio, di Giovanni Falcone: “subito dopo la strage di Capaci, venne eletto - ha esordito Di Matteo - il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Quel presidente con le sue decisioni, con il suo attivismo politico ed istituzionale non solo è stato arbitro, ma è stato il principale attore anche in vicende che hanno segnato snodi nel dialogo tra Stato e mafia: la nomina di Mancino, quella di Conso, l’avvicendamento ai vertici del Dap tra Amato e Capriotti con vice Di Maggio; l’attivismo diretto e importante finalizzato a influire sulle nomine più importanti persino nelle forze di polizia”.
I nomi ricordati da Di Matteo sono tutti entrati a pieno titolo nella vicenda della trattativa tra Stato e mafia.
Nicola Mancino, nominato da Scalfaro ministro dell'Interno nel governo Amato entrato in carica il 28 giugno 1992, è imputato a Palermo, mentre Giovanni Conso, nominato anche lui da Scalfaro ministro di Grazia e Giustizia nello stesso governo il 12 febbraio 1993, è artefice di alcune decisioni che provano e dimostrano la concreta attuazione del patto tra lo Stato e la mafia: infatti fu lui che, da ministro, si rifiutò di rinnovare nel marzo del 1993 il regime carcerario speciale a 140 mafiosi sottoposti a carcere duro, una circostanza che appare un chiaro favore alla mafia, e che nel giugno dello stesso anno sostituì Nicolò Amato al vertice del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del suo dicastero con Adalberto Capriotti, quest'ultimo attualmente indagato per il reato di false dichiarazioni al pm che lo interrogava come teste nel procedimento sulla trattativa tra Stato e mafia. Capriotti, insieme al suo vice Francesco Di Maggio, fu autore della proposta al ministro Conso, nel giugno 1993, di revoca del carcere duro a 300 mafiosi.
Secondo la ricostruzione di Di Matteo quindi Oscar Luigi Scalfaro fu, tramite le nomine dei due ministri, non uno spettatore estraneo, bensì un vero e proprio supervisore della trattativa tra lo Stato e la mafia, e a questo punto vengono in mente le parole della testimone al processo di Palermo Fernanda Contri, che all'epoca della trattativa era segretario generale della presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale affermò che “non si decideva niente se non c’era l’avallo e il gradimento di Scalfaro“.
A proposito dell'avvicendamento al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Scalfaro, sentito dalla procura di Palermo come testimone sulla trattativa, dichiarò di non sapere nulla sui motivi che portarono alla sostituzione di Amato con Capriotti e di essere completamente all'oscuro “su una possibile trattativa o connessione tra 41 bis e gli episodi stragisti del 1993”.
Di Matteo, nella sua requisitoria, ha accusato senza mezzi termini Scalfaro di avere mentito: “noi - ha affermato il magistrato - acquisimmo dopo le prove del mendacio di Scalfaro, dopo aver raccolto le dichiarazioni del monsignor Fabbri, Gifuni ed altri. E c’è un contrasto netto ed insanabile tra Scalfaro e le dichiarazioni di Napolitano che ha riferito che tra le alte cariche dello Stato, dopo gli attentati del’93, era chiara la convinzione che quelle bombe rispondessero ad una sorta di ricatto dell’ala corleonese di Cosa nostra per migliorare il regime carcerario”.
Se Scalfaro fosse ancora vivo, insomma, sarebbe chiamato a rispondere del reato di false informazioni.
E le conclusioni del pm palermitano su Scalfaro, il quale non ha fatto a meno di ricordare che i predecessori di Mancino e di Conso ai rispettivi ministeri - ossia Vincenzo Scotti e Claudio Martelli - erano schierati su una linea più intransigente per ciò che riguarda la lotta alla mafia, sono pesantissime: “è stato il principale attore delle decisioni che in questo processo abbiamo dimostrato: la nomina di Mancino al posto di Scotti, quella del nuovo direttore del Dap e di Conso al ministero della Giustizia al posto di Claudio Martelli”, lasciando intendere che più che di attore principale quello di Scalfaro è stato, sulla trattativa, un ruolo da regista che tutto ha mosso da dietro le quinte e dall'alto della sua carica.
Del resto, se la trattativa ha visto scendere in campo i capi della mafia, appare quantomeno strano che lo Stato abbia offerto come interlocutori personaggi tutto sommato di secondo piano come i tre carabinieri Subranni, Mori e De Donno, e non siano stati coinvolti, data la posta in gioco, i vertici della Repubblica italiana.
Concludendo la sua requisitoria, Di Matteo non ha dimenticato che - come attestato dal rapporto del Sisde del 20 agosto 1993, il quale metteva in evidenza che le pressioni della mafia sullo Stato erano finalizzate anche alla creazione di un nuovo ordine istituzionale in Italia - l'allora capo della mafia Riina afferma, in una intercettazione ambientale del 2013 registrata durante un colloquio con un suo compagno di detenzione, che Berlusconi “per incontrarmi mi cercava” e che “Dell'Utri è una persona seria”. Secondo il magistrato tali parole del boss erano sincere, in quanto, ha affermato “noi siamo sicuri che Riina non sapeva di essere intercettato”.
E che Marcello Dell'Utri, il principale compagno di merende di Silvio Berlusconi a partire dalla creazione di Forza Italia e dal suo ingresso in politica, avesse tutte le carte in regola dal punto di vista del capo mafioso lo testimonia la sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa.
L'impressione che si ha dalla lettura della requisitoria di Di Matteo è che, con la trattativa tra lo Stato e la mafia, quest'ultima abbia guadagnato ben più che qualche sconto carcerario per i suoi adepti, bensì che essa abbia acquistato con tale trattativa un potere che mai prima di allora aveva avuto in Italia, fino ad arrivare ad acquisire un asfissiante controllo della vita politica ed economica su buona parte del territorio italiano.
31 gennaio 2018