La Cina capitalista reprime la sinistra e i lavoratori
Arrestato un membro del “Gruppo di studio del marxismo” dell'Università di Pechino
Il 15 novembre in un raid a Guangzhou sono stati arrestati sei studenti colpevoli di avere partecipato ad una riunione di studio e accusati di “formare un gruppo per fomentare disordini contro l'ordine pubblico”, nonché di avere espresso opinioni sovversive su “certi fatti storici” (il massacro di Tian'anmen del 1989). La notizia ha fatto il giro del mondo soprattutto grazie ad una petizione in loro favore firmata da circa 400 intellettuali cinesi, poi censurata.
Fra gli arrestati, poi rilasciati su cauzione, il 24enne Zhang Yunfan ha scritto una lettera aperta in cui si definiva membro del “Gruppo di studio del marxismo” dell'Università di Pechino. Considerato da varie fonti vicino alle lotte dei lavoratori migranti che si spostano dalle campagne alle città, Zhang nella lettera scriveva: “Sono determinato a restare fedele alla classe operaia e credo nel marxismo”. In un altro passaggio ha richiamato il clima di terrore dei tempi del Kuomintang, il partito nazionalista e fascista che governava la Cina negli anni '20 e '30 prima di essere rovesciato dalla rivoluzione guidata da Mao, “con il rombo delle auto di polizia, il fischio delle sirene, agenti con mandati d'arresto per giovani progressisti e progressiste che non hanno dove nascondersi”. Sia lui che il compagno Sun Tingting hanno denunciato abusi.
La data forse non è casuale. Nella notte fra il 14 e il 15 novembre a Pechino un incendio ha distrutto una catapecchia uccidendo 19 persone che vi lavoravano e vivevano. La maggior parte si erano spostati in città dalle campagne, dove non avevano lavoro, come la maggior parte degli operai che mandano avanti le fabbriche del capitale industriale autoctono e straniero in Cina. È seguita un'operazione mastodontica di espulsione dei lavoratori migranti dalla città, ufficialmente per ragioni di “sicurezza”. In realtà ormai questa manodopera a bassissimo costo non serve più, va rilocalizzata in città più piccole per essere nuovamente supersfruttata soprattutto nei cantieri edili e nei grandi progetti infrastrutturali, mentre le città più grandi e “globalizzate” devono rimanere appannaggio dei nuovi ricchi e della “classe media” che i revisionisti cinesi si vantano di aver creato.
La lotta di classe in Cina è viva e operante e lo Stato revisionista è decisamente dalla parte del capitale. Secondo dati del “China Labor Bulletin”, gli scioperi in Cina sono raddoppiati negli scorsi anni. A novembre la nota multinazionale Apple ha scoperto l'acqua calda “denunciando” studenti supersfruttati nelle fabbriche degli iPhone in un'inquietante e peggiore versione cinese dell'alternanza scuola-lavoro. Il 3 dicembre 40 membri di associazioni di sostegno ai lavoratori sono stati posti in stato di fermo e sottoposti a interrogatori. Il 29 gennaio una protesta a Pechino ha visto protagonisti ex insegnanti che denunciavano il mancato pagamento delle pensioni.
Visto che le gravi contraddizioni sociali create dal capitalismo cinese si stanno aggravando sempre più, non stupisce che il regime revisionista e fascista di Xi Jinping abbia ben più paura di eventuali “sobillatori” sovversivi di sinistra, anziché degli agenti veri o presunti dei concorrenti imperialisti, soprattutto Usa. Il pericolo principale è l'acuirsi della lotta di classe, che potrebbe frenare la sua ambiziosa corsa alla conquista dei mercati e mandare in pezzi il suo falso “socialismo”.
7 febbraio 2018