Chiesto il rinvio a giudizio di Raggi per falso. 14 PD saranno processati per spese pazze
Tra gli imputati PD ci sono Montino, sindaco di Fiumicino, e sei parlamentari in carica
Come abbiamo più volte denunciato anche il fantomatico primato della tanto sbandierata onestà del Movimento 5 Stelle si è sciolto come neve al sole e ormai in molti comuni, subito dopo le prime vittorie elettorali, sindaci e amministratori pentastellati affondano sempre più nel pantano della corruzione e del malaffare.
La stessa sorte è toccata anche all'amministrazione capitolina, fiore all'occhiello e laboratorio politico del “nuovo modo di governare” dei 5 Stelle, la quale si ritrova a fare i conti con una valanga di inchieste giudiziarie, avvisi di garanzia e rinvii a giudizio che in molti casi, soprattutto dal punto di vista politico ed etico ma anche giudiziario, sono ancora più gravi di quelle che hanno colpito tutte le altre cosche parlamentari che si sono avvicendate in questi anni alla guida del Campidoglio.
Dal 29 settembre la sindaca Virginia Raggi è ufficialmente imputata per falso nell'ambito dell'inchiesta per la nomina di Renato Marra (fratello di Raffaele, suo braccio destro e ex capo del personale capitolino già a processo per corruzione).
La sindaca pentastellata era indagata anche per abuso d'ufficio per la nomina del fedelissimo Salvatore Romeo (quello delle polizze intestate a Raggi “a sua insaputa”) ora posto a capo della segreteria politica della sindaca.
L'accusa di abuso d'ufficio è stata però archiviata perché, secondo i pubblici ministeri Paolo Ielo e Francesco Dall’Olio, manca l'elemento soggettivo del reato. Ossia, il reato c'è ma è stato commesso senza il dolo e l’aggravante di “eseguirne od occultarne un altro”.
Rimane invece in piedi l'accusa per falso ma, anche in questo caso, il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Francesco Dall'Olio, non hanno ravvisato gli estemi dell'aggravante. I Pm contestano alla Raggi la falsa dichiarazione inviata alla responsabile Anticorruzione del Comune in cui la sindaca attestata che la scelta di nominare Marra era stata solo sua al solo scopo di far decadere il conflitto di interessi di Raffaele.
In ogni caso rimane il fatto che in pochi mesi la corrente romana del M5S trasforma il Campidoglio in un mercimonio di nomine egemonizzato dal gruppo della famigerata chat dei “quattro amici al bar” che fa capo al cosiddetto “Raggio magico” composto da Raggi, dal vicesindaco Daniele Frongia, dal dirigente (poi arrestato) Raffaele Marra e dal dipendente comunale Salvatore Romeo che in più di un'occasione è entrato in rotta di collisione con gli stessi vertici nazionali del Movimento per la spartizione del potere e soprattutto delle poltrone.
Il codice di comportamento del M5S, approvato proprio per mettere al riparo la giunta capitolina dalle inchieste giudiziarie, non a caso prevede l’incompatibilità con una carica elettiva soltanto in caso di condanna in primo grado e, giustappunto, solo in caso di “reato commesso con dolo”.
Di fronte a tutto ciò solo un imbroglione politico come Beppe Grillo poteva avere la faccia tosta di affermare che: “Sono molto soddisfatto che i due reati più gravi siano stati archiviati... Sono contento che Virginia sia riuscita a dimostrare la sua innocenza”.
Anche il candidato premier Luigi Di Maio si è unito a Grillo per ribadire che: “La procura ha chiesto di archiviare le accuse a Virginia Raggi per cui la stampa ci ha infangato per mesi. Abbiamo massima fiducia nel lavoro della magistratura. Il Movimento 5 Stelle continua a lavorare per Roma”.
Al fianco della Raggi si è schierato persino il suo rivale, Roberto Fico, che ha deciso di fare buon viso a cattivo gioco accogliendo la notizia con favore.
Dichiarazioni che fanno letteralmente a cazzotti con le ripetute richieste di dimissioni avanzate dai boss del M5S quando sotto le grinfie della magistratura c'era la giunta piddina guidata da Marino e gli stessi Grillo, Di Maio e Raggi, Fico e Dibattista sostenevano a spada tratta che un sindaco indagato non può ricandidarsi e deve dimettersi.
Del resto lo stesso giorno del rinvio a giudizio della Raggi il Giudice per le udienze preliminari della procura di Roma ha accolto anche il rinvio a giudizio di 16 ex consiglieri regionali PD del Lazio coinvolti a vario titolo nella scandalosa vicenda delle “spese pazze” inerente lo sperpero dei fondi destinati ai gruppi consiliari alla Regione Lazio. Le accuse a loro carico sono gravi e infamanti e vanno dal peculato all'abuso d’ufficio alla corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e truffa.
Ma su questo “stranamente” il M5S non ha detto una parola.
Eppure tra gli imputati PD che sarano alla sbarra il prossimo 22 gennaio ci sono quasi tutti i capibastone del PD laziale. C’è Esterino Montino, ex capogruppo, già vicepresidente della Regione all’epoca di Piero Marrazzo e attuale sindaco di Fiumicino, comune del litorale romano. Assieme a lui, nell’indagine sono coinvolti il senatore Bruno Astorre, il suo collega a palazzo Madama Carlo Lucherini, il deputato Marco Di Stefano e l’ex capo di gabinetto del sindaco Ignazio Marino, Enzo Foschi. E poi ci sono Claudio Moscardelli, Daniela Valentini, Carlo Ponzo, Claudio Mancini. Variano le somme contestate ai diversi imputati. Per Montino, ad esempio, si tratterebbe di 7500 euro. Per Astorre, Di Stefano e Mancini rispettivamente 122, 93 e 188 mila euro.
I fatti contestati dagli inquirenti hanno causato un danno di 1,5 milioni di euro alle casse regionali e sono avvenuti mentre gli imputati erano all’opposizione. Alla presidenza della Regione in quel periodo, tra il 2010 e il 2013, c’era Renata Polverini, eletta col “centro-destra” dopo avere sconfitto Emma Bonino. L’indagine era partita da Rieti, quando la procura aveva cominciato ad indagare sulle spese dell’ex consigliere Pd Mario Perilli, che era anche tesoriere del gruppo consiliare del Pd in Regione. Soltanto in un secondo momento l’inchiesta è stata trasferita alla procura di Roma per competenza territoriale. I consiglieri, scrivono tra le altre cose dalla procura, «omettevano di compiere la selezione dei candidati e conferivano incarichi privi delle conoscenze professionali richieste dalla legge, così intenzionalmente procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale alla vasta platea di collaboratori, nonché ai singoli consiglieri».
La verità è che non è assolutamente vero, come sostengono Grillo e i suoi capibastone, che il falso in atto pubblico contestato alla Raggi “è un reato meno grave”. Intanto va detto che la pena prevista dal codice penale per il falso in atto pubblico va, a secondo dei casi, da un minimo di un anno a un massimo di 10 anni di reclusione. Ma a parte le implicazioni giudiziarie, c'è da sottolineare che il rinvio a giudizio della Raggi conferma che ormai anche sul piano politico, istituzionale ed elettorale il M5S ha completamente perso la sua presuntuosa verginità morale e si è completamente integrato nel regime neofascista vigente al pari di tutte le altre cosche parlamentari.
La conseguenza è matematica: se sono in grado di mentire spudoratamente all’Anticorruzione, figuriamoci ai propri elettori!
7 febbraio 2018