Come deciso dall'Assemblea nazionale del popolo sostenitrice del capitalismo
Xi nuovo imperatore a vita della Cina per promuovere la sua linea borghese e imperialista
Il socialimperialismo cinese aumenta le spese militari dell'8,1%, anch'esso si prepara alla guerra per il dominio del mondo

 
La sessione annuale dell'Assemblea nazionale del popolo (il parlamento cinese), la prima della XIII legislatura, svoltasi dal 5 al 20 marzo, oltre a prendere importanti decisioni di natura economica ha approvato un vasto piano di ristrutturazione dell'architettura istituzionale dello Stato capitalista. Una serie di modifiche alla Costituzione vedono infatti l'eliminazione del limite di due mandati per il presidente e il vicepresidente della Repubblica. Ciò consentirà a Xi Jinping, rieletto presidente alla sessione (lo è dal marzo 2013), di restare in carica praticamente per sempre, o comunque a piacimento, aumentando considerevolmente il proprio potere personale. Oltre a questo, il “pensiero di Xi sul socialismo con caratteristiche cinesi della nuova era” (vedi) è stato inserito nel preambolo della Costituzione come linea-guida ufficiale dello Stato, e vede la sua comparsa un nuovo organismo statale, la Commissione nazionale di supervisione, dotata di larghissima autorità per portare avanti la campagna anticorruzione di Xi, comodo espediente anche per disfarsi dei rivali politici.
Dal punto di vista politico, questo cambiamento è un altro tassello del trionfo, all'interno del partito revisionista, della linea borghese e imperialista perseguita da Xi da quando è divenuto segretario generale nel novembre 2012, ribadita e codificata al 19° Congresso del PCC lo scorso ottobre. Al centro di tale linea ci sono il riconoscimento del libero mercato come forza trainante dello sviluppo economico e un rafforzamento dell'autorità del partito per soffocare la lotta di classe e garantire la stabilità del capitalismo cinese. Si spiega così la decisione del gruppo dirigente cinese di superare la direzione collegiale in vigore dai tempi di Deng Xiaoping ad oggi, per mantenere un equilibrio fra le varie cosche revisioniste, a favore invece di una direzione forte in grado di portare la Cina capitalista senza troppi scossoni al raggiungimento degli obiettivi posti al suddetto congresso del PCC: costruire una società “moderatamente prospera” entro il 2035 e conseguire lo status di grande potenza entro il 2050.
Un piano ambizioso che potrebbe crollare rovinosamente visto che le stesse gravi contraddizioni sociali create dal capitalismo cinese rischiano di esplodere ora che non c'è più la roboante crescita economica dei primi anni 2000 a sostenere l'“armonia sociale”: le previsioni di crescita del PIL per il 2018 sono infatti del 6,5%, dopo il 6,9% dell'anno scorso. Per questo la cricca di Xi sta cercando di liberarsi dalla dipendenza sulle esportazioni promuovendo un'economia maggiormente basata sul mercato interno e sullo sviluppo del capitale cinese anziché straniero, un processo però a lungo termine che non ammette deviazioni da questa linea.
Contestualmente, il premier Li Keqiang ha annunciato un ulteriore aumento delle spese militari dell'8,1% (rispetto al 7% del 2017), secondo la linea fin qui tenuta di dotare la Cina di un forte esercito in grado di difendere i suoi interessi socialimperialistici all'interno e soprattutto all'estero, specie in Asia centrale, dove sta inaugurando il corridoio commerciale della “nuova via della seta”, e nel Sud-est asiatico, che considera il proprio cortile di casa.
Proprio per questi motivi il paragone con Mao, praticamente unanime nella stragrande maggioranza dei mass media, è improprio e insensato. Innanzitutto perché Mao era alla testa di un Partito marxista-leninista alla direzione di uno Stato socialista e fondato sulla partecipazione e sulla mobilitazione delle masse lavoratrici, mentre Xi comanda un'oligarchia burocratica revisionista che usa il partito come mero strumento di potere e per contenere la lotta di classe. Com'è noto, poi, Mao fu presidente della Repubblica per un solo mandato, dal 1954 al 1959. Meno noti sono i suoi tentativi di lasciare anche la carica di presidente del partito, di cui fu leader riconosciuto dal 1935 fino alla morte nel 1976: all'8° Congresso nel 1956 propose la costituzione della carica di “presidente onorario”, al 10° Congresso nel 1973 chiese di poter dirigere una commissione di veterani consiglieri lasciando ad un giovane la direzione del Partito, ma la richiesta fu respinta. Altro che dittatore a vita!
Insomma la Cina si equipaggia per affrontare gli scontri sociali interni e uno scenario mondiale che la vede da una parte aspirante leader della globalizzazione neoliberista, dall'altra circondata da minacciosi rivali imperialisti come gli Usa di Trump, la Russia di Putin, il Giappone di Abe e l'India di Modi. Se queste mosse sortiranno qualche effetto dipenderà principalmente dagli sviluppi della lotta di classe in Cina.

28 marzo 2018