Il welfare aziendale copre i buchi della sanità pubblica e arricchisce i padroni
Il finanziamento alla sanità pubblica sta scendendo sotto la soglia limite che garantisce l'accesso alle cure

Welfare aziendale contro sanità pubblica. Emerge sempre più chiaramente lo stretto rapporto tra la crescita del welfare sanitario aziendale e le difficoltà che attraversa il sistema sanitario nazionale (SSN) che proprio quest'anno compie 40 anni.
Era infatti il 1978 il parlamento approvò la legge che doveva attuare l'articolo 32 della Costituzione che recita: ”La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”
Non si trattò di una concessione ma il frutto di una lunga stagione di lotte operaie, studentesche, femminili e popolari che investì anche il mondo della sanità e della salute che chiedevano, e in buona parte ottennero: consultori femminili, chiusura dei manicomi, assistenza sanitaria per tutti.
Sino ad allora c'erano le casse mutualistiche, più comunemente chiamate mutue. Queste erano legate alla professione per cui al lavoratore e ai suoi familiari era assicurata una certa copertura sanitaria. Chi non aveva un lavoro era escluso da tutto e anche tra chi aveva la mutua esistevano profonde differenze. L'istituzione del SSN prevedeva invece una sanità come diritto universale, quindi riconosciuto nella stessa maniera a tutti.
Fu dunque un'importante conquista nonostante il Mezzogiorno sia sempre rimasto arretrato rispetto al resto del Paese. In seguito pesanti controriforme ne hanno minato l'effettivo funzionamento, prime tra tutte quella del 1992 che introduceva l'aziendalizzazione delle USL e il concetto di “mercato” e quella del 2001, con la “riforma” del Titolo V della Costituzione che ha creato 20 sistemi diversi, tanti quante sono le regioni italiane.
Negli ultimi anni la spada di Damocle che pende sulla sanità è quella dei tagli alla spesa pubblica che hanno portato al netto peggioramento del nostro sistema sanitario. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l'Italia per la prima volta ha raggiunto il limite minimo di spesa che assicura l'accesso alle cure mediche. Nel 2010 il rapporto tra la spesa sanitaria e il Prodotto interno lordo (PIL) era del 7,3% equivalente a 111.000 milioni di euro mentre nel 2020 è prevista una spesa equivalente al 6,3% del PIL. Ma già il DEF (la finanziaria) del 2018 prevede la spesa al 6,5%, ossia il minimo per garantire un assistenza sanitaria decente.
Liste di attesa di mesi, posti letto carenti, attrezzature obsolete, personale medico e sopratutto infermieristico sottodimensionato e super spremuto. In più aggiungiamoci le pesanti pressioni delle case farmaceutiche e dei privati che operano nel settore che generano una diffusa corruzione tra i dirigenti delle ASL, causando sperpero di denaro pubblico e inefficienza. Solo lo sforzo dei lavoratori riesce a mantenere un servizio dignitoso.
I vari governi che si sono succeduti hanno pensato di tamponare l'affossamento graduale del sistema pubblico attraverso il welfare aziendale, ovvero l'offerta sanitaria delle imprese. Non a caso la spesa sanitaria privata è continuata a crescere e dal 2010 è passata da 31 milioni di euro ai 36 milioni nel 2016.Il welfare aziendale ripropone le vecchie mutue e non è, come si vuol fare credere, complementare, ossia in più, ma sostitutivo, cioè che prende il posto della sanità pubblica e la relazione tra i due, con l'aumento del primo a discapito della seconda, è lampante.
Non c'è quindi da meravigliarsi se nel complesso del welfare aziendale il principale benefit è quello sanitario, scelto da 3 lavoratori su 4. In alcuni contratti poi, come quello dei metalmeccanici, la scelta è obbligatoria perciò anche chi per principio è contrario, è costretto a sceglierlo perché il premio aziendale va a finire lì.
È da sfatare anche la storiella che questa forma di “pagamento” sia vantaggiosa per il lavoratore. Ha sì una tassazione del 10%, rispetto al 27-33% se il premio di risultato va a finire in busta paga ma il datore di lavoro non gli versa più su quella quota i contributi previdenziali, quindi la detassazione va a suo vantaggio, è il padrone che ci guadagna.
I dati confermano la direzione presa dalla sanità negli ultimi decenni. Fino al 2000 il welfare sanitario privato era ristretto, nel 2014 erano 9 milioni gli italiani con una polizza integrativa, saliti a 14 milioni nel 2017 con una previsione di 21 milioni nel 2025. Il SSN non è universalistico ma sdoppiato: una quota consistente di persone con una polizza privata che assicura un accesso migliore e più veloce alle cure mediche e una fetta di popolazione più povera a cui è riservata la sanità pubblica, sempre più disastrata.
Questo sviluppo privatistico crea anche gravi “effetti collaterali”. Ad esempio l'assistenza agli anziani, sempre più richiesta dall'invecchiamento della popolazione, è messa in discussione dai tagli alla spesa e va a ricadere sulle spalle dei familiari. Stesso discorso vale per i disabili mentre nei reparti degli ospedali la carenza di personale costringe i parenti, o le badanti da essi pagate, ad essere sempre più presenti accanto ai malati.
Lo sviluppo del welfare aziendale è avvenuto con la complicità di Cgil-Cisl e Uil. Un sostegno per niente disinteressato visto che Cgil,Cisl e Uil siedono assieme ai padroni nei consigli paritetici (50%) di gestione dei fondi sanitari integrativi di categoria al 50%.
 

4 aprile 2018