I sindacati respingono l'accordo AcelorMittal-governo sull'Ilva
Vanno salvati tutti i posti di lavoro e salvaguardato l'ambiente
Nazionalizzare l'acciaieria di Taranto

Nonostante il tentativo in extremis di Calenda, l'accordo per l'acquisizione dell'Ilva da parte del gruppo franco-indiano dell'acciaio AcelorMittal non ha ricevuto il consenso delle organizzazioni sindacali. Con il mandato oramai scaduto, il ministro aveva convocato i sindacati al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), pretendendo la firma di Cgil-Cisl-Uil e Usb, ovvero delle sigle maggiormente rappresentative nelle fabbriche del gruppo, una volta di proprietà della famiglia Riva e adesso amministrato provvisoriamente da Invitalia, l'agenzia controllata dal ministero dell'Economia.
La risposta dei sindacati non poteva che essere negativa di fronte al pesante prezzo da pagare sul fronte occupazionale, circa 5mila “esuberi”, migliaia di lavoratori da gettare in mezzo alla strada. Del resto la nuova proprietà voleva il consenso delle organizzazioni sindacali ma non ha mai voluto trattare realmente perché è andata avanti in maniera intransigente, senza cambiare una virgola alla sua proposta iniziale.
Il governo Renzi prima e Gentiloni dopo, sono arrivati a un accordo con AcelorMittal che portava lo Stato a far ricadere sulla fiscalità generale, quindi sui contribuenti, i debiti lasciati dalla precedente gestione e consegnare ai nuovi padroni una fabbrica redditizia, unica contropartita mantenere almeno 10mila dipendenti e attuare gli inderogabili interventi ambientali per arrestare l'avvelenamento della città che ha causato in questi anni centinaia di casi di malattie respiratorie e tumori.
In particolare il ministro Calenda si è adoperato per far ingoiare ai lavoratori questo accordo che prevedeva 9500 dipendenti con il taglio di 5mila posti di lavoro e i salari di quelli che restavano perché AcelorMittal vuole licenziare azzerando premi e diritti contrattuali precedentemente acquisiti e riassumere con il contratto “a tutele crescenti” del Jobs Act senza articolo 18. Il 10 maggio nell'incontro al Mise Calenda ha tentato senza successo l'ultima carta proponendo di far confluire 1500 lavoratori in una newco diretta emanazione di Invitalia mentre per 2.300 ci sarebbero stati 200 milioni di incentivi per finanziare esodi volontari e ammortizzatori sociali per cinque anni.
“Noi non potremmo mai firmare un accordo che poi ci viene bocciato dai lavoratori” è stata la risposta della segretaria nazionale della Fiom Francesca Re David. Una dichiarazione che ci fa capire che sono state le lotte intransigenti dei lavoratori degli stabilimenti di Taranto e di Genova a respingere questo accordo e a costringere i sindacati a dire no, seppur con sfumature diverse.
Per i metalmeccanici della Cgil “La proposta del governo sulla vertenza Ilva è irricevibile. La trattativa non è mai entrata nel merito, ma nulla è comunque cambiato sull’occupazione. La Fiom non mette la firma su un accordo che prevede licenziamenti”. Netto il rifiuto dell'Usb e anche quello della Uilm che ha come segretario nazionale Rocco Palombella, ex dipendente Ilva. La Cisl ha invece, obtorto collo, espressa per il no, costretta, come la Uil, dalle sue strutture territoriali.
Bentivogli, della Fim Cisl, addirittura ha rimproverato Calenda di non aver tenuto duro e di aver mollato perché la delegazione dell'USB gli ha rinfacciato di non avere più titoli per trattare sull'Ilva poiché questo spetterà al nuovo governo. Calenda da par suo, ha accusato i sindacati, riferendosi a Fiom e Usb, di atteggiamento “che sta a metà tra il populismo sindacale e il sindacalismo politico".
Sicuramente tra i sindacalisti c'è chi spera in un atteggiamento diverso da parte del futuro governo. Specie nell'Usb, che spesso flirta con i pentastellati, si spera in una nazionalizzazione ma si dimenticano che il Movimento 5 Stelle si è espresso più volte per la chiusura dell'Ilva di Taranto e Beppe Grillo alcuni mesi fa in visita in città dichiarò: “l'Ilva diventi un museo di archeologia industriale”. Forse credono a Salvini che in campagna elettorale ha dichiarato “con noi al governo le aziende non chiuderanno”?
Di sicuro la nazionalizzazione è la rivendicazione da pretendere davanti al nuovo governo, qualunque esso sia, per garantire l'occupazione e al tempo stesso il risanamento ambientale. Non ci accodiamo a chi chiede la chiusura dello stabilimento di Taranto come fanno per fini elettorali il governatore PD Emiliano e i 5 Stelle (almeno per ora) con l'illusione di vivere di turismo, agricoltura e allevamento di mitili. Tutti i lavoratori devono mantenere il proprio posto di lavoro senza tagli di salario. Parallelamente non si può tenere a ridosso della città la più grande acciaieria d'Europa senza interventi drastici, a partire dalla bonifica del terreno circostante, dalla copertura dei parchi minerari e dell'abbattimento dei fumi delle ciminiere, principali responsabili delle emissioni e delle polveri che avvelenano Taranto.
 
 

16 maggio 2018