Maduro rieletto presidente del Venezuela ma perde 1,7 milioni di voti
Il cosiddetto “socialismo del XXI secolo”, sostenuto dal PCV revisionista, non riesce a risolvere i problemi delle masse. Il 54% dell'elettorato, tra cui una parte della popolazione che aveva fiducia nello chavismo diserta le urne
Gli Usa minacciano nuove e dure sanzioni
Lo scorso anno il governo del presidente Nicolas Maduro aveva fronteggiato i pesanti attacchi e le ingerenze dell'imperialismo americano, che appoggia e manovra la destra golpista venezuelana, sostituendo il parlamento passato in mano all'opposizione con l'Assemblea nazionale costituente (Anc) che si insediava il 4 agosto. Il voto dell'Anc aveva mostrato un paese comunque spaccato, avevano votato solo circa 8 milioni di elettori sui 19 milioni aventi diritto, pari al 41,5%, un numero superiore a quelli che avevano partecipato due settimane prima al “referendum” contro il presidente Maduro indetto dalla Mud, la Mesa de la Unidad Democratica, la coalizione dell'opposizione parlamentare di destra, secondo i suoi dati. Fra gli obiettivi indicati dal presidente per i lavori dell’Anc era l'indicazione di un percorso verso “un nuovo modello di economia post-petrolifera, produttiva, diversificata, che soddisfi le necessità di approvvigionamento della popolazione”, schiacciata dalla pesante crisi economica, dall'embargo pilotato dagli Usa e dall'aperto boicottaggio della destra.
Le elezioni presidenziali del 20 maggio, che possono considerarsi un test per il lavoro del governo venezuelano, confermano che il paese resta nella stessa critica condizione, spaccato in due, con la Mud che aveva invitato al boicottaggio. Nicolas Maduro ha comunque vinto e resta confermato nella carica per altri sei anni, dal 2019 al 2025, seppur con minori consensi.
Il Consiglio nazionale elettorale proclamava la vittoria di Maduro che ha ottenuto oltre 5 milioni di consensi, il 67,7% dei voti espressi, contro gli 1,8 milioni, pari al 21,1%, del candidato ultraliberista Henri Falcon, ex chavista passato alla destra.
I dati significativi del voto sono altri e riguardano il boicottaggio del voto da parte del 54% dell'elettorato, tra cui una parte della popolazione che aveva riposto fiducia nello chavismo. Il 46% dei votanti rappresenta un crollo considerevole rispetto alle precedenti presidenziali del 2013, quando alle urne si era recato quasi l'80% degli aventi diritto, poco di meno, il 74,2%, alle ultime politiche del dicembre 2015; di poco superiore al 41,5% dei partecipanti all'elezione dell'Anc quasi un anno fa.
Crolla la partecipazione al voto e calano i consensi per Maduro che nel 2013 aveva ottenuto circa 7,5 milioni di voti e battuto di un soffio, poco più di 200 mila voti, il concorrente della destra Henrique Caprile; rispetto a cinque anni fa il presidente ha perso 1,7 milioni di voti. Un dato negativo che conta molto di più dell'aiuto ottenuto dall'imperialismo russo, interessato soprattutto a mettere le mani sul petrolio venezuelano.
Il voto non è stato riconosciuto dagli Usa che minacciano nuove, dure e inaccettabili sanzioni. “L’elezione in Venezuela è una farsa, né libera né equa. Il risultato illegittimo è un nuovo colpo all’orgogliosa tradizione democratica del Venezuela”, sentenziava il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, uno dei campioni della democrazia imposta a suon di bombe dell'amministrazione Trump. Che come dopo le elezioni dello scorso anno minacciava che gli Stati Uniti non sarebbero rimasti a guardare “mentre il Venezuela crolla e la miseria continua a colpire il popolo coraggioso”. L'imperialismo americano era seguito a ruota dalla maggioranza dei governi reazionari dell'America latina e dagli imperialisti europei della Ue, in questo caso pienamente allineati.
Il voto presidenziale del 20 maggio conferma che la politica del governo venezuelano, l'applicazione del cosiddetto “socialismo del XXI secolo”, non riesce a risolvere i problemi delle masse. Non lo riconosce apertamente ma nei fatti lo dice anche il Partito comunista, il PCV revisionista, unito da un patto elettorale col Partito socialista di Maduro, quando il suo segretario generale commentava il risultato del voto sollecitando un largo rimpasto di governo e una risposta positiva alle attese della popolazione che “è in debito” con lo Stato. Magari poteva pensarci prima, quantomeno nel febbraio scorso al momento della firma del patto elettorale quando lamentava di non aver potuto inserire nel documento le proposte del partito di procedere alle nazionalizzazioni dei settori finanziario e bancario, delle industrie e del commercio. Invece ha coperto Maduro ben sapendo, come denunciano all'interno dello stesso PCV, che “la struttura economica del paese è rimasta immutata e il Venezuela continua ad essere un modello di capitalismo di rendita e di dipendenza, improduttivo, mono-produttore e multi-importatore, e di conseguenza uno Stato inefficiente, corrotto e burocratizzato”.
Nel paese che doveva essere il modello del “socialismo del XXI secolo” la politica estera antimperialista rischia di finire stritolata nell'abbraccio interessato degli imperialisti russi e nella politica interna comanda ancora la borghesia. Come conferma il recente esempio del presidente della PDVA (Petróleos de Venezuela), in carica dal 2017, che ha mandato avanti la privatizzazione di aree di attività industriale nazionalizzate da Chavez nella zona del Lago di Maracaibo e nella Cintura dell'Orinoco.
30 maggio 2018