Appoggiamo la lotta dei “riders”
Il settore della gig economy,
o dell'economia digitale, è stato spesso rappresentato in maniera accattivante, come modello giovane, moderno e autonomo di lavoro, con orari flessibili adattabili alle proprie esigenze personali, oppure come “lavoretto” con cui si può guadagnare il gruzzoletto per mantenersi agli studi. La realtà si dimostra ben diversa con un mondo senza regole per le multinazionali del cosiddetto delivery
, mentre per i lavoratori vige l'assenza dei diritti e una nuova forma di caporalato messa in pratica con mezzi digitali ma che nella pratica ricorda molto il medievale asservimento della gleba o il cottimo e gli orari lunghissimi del capitalismo ottocentesco.
“Riders” e gig economy
Questo settore è stato fino ad ora “terra di nessuno” e ha permesso alle aziende di fare il bello e il cattivo tempo e ottenere ampi profitti, sopratutto in mancanza di una definizione chiara del tipo di rapporto con il prestatore d'opera. La gig economy
è un termine inglese che significa, lavori saltuari senza contratto, “lavoretto” ma che non da il senso reale delle cose. Mentre i termini anglofoni storpiano e camuffano la realtà: rider
è il meno attraente fattorino, delivery
non vuol dire altro che consegna, e così via.
Si calcola che in Italia vi lavori quasi un milione di persone, il 2,5% del totale degli occupati, anche se manca una definizione chiara e condivisa per delimitare il settore. Ne fanno parte i ciclofattorini di Foodora, Delyveroo, Just Eat e altre multinazionali del cibo a domicilio, gli autisti di Uber, chi fa a fare pulizie per Helping. Si usa anche il termine sharing
(condivisione) economy
, anche in questo caso del tutto fuorviante. Cosa condivide un fattorino in bicicletta o chi pulisce i pavimenti con chi gestisce e trae profitto dalla mediazione attraverso le piattaforme digitali?
Se usciamo da queste rappresentazioni possiamo dire che la gig economy
è un tipo d'impresa capitalistica di servizi basata sulla flessibilità e l'intermittenza che fa del taglio dei salari e dei diritti sindacali un suo punto di forza, dove le lavoratrici e i lavoratori non hanno nessuna possibilità di contrattare l'organizzazione e l'orario di lavoro nè tanto meno rivendicare straordinari, dove vige il cottimo, dove i lavoratori devono automunirsi degli strumenti di lavoro e sono diretti tramite strumenti digitali che li controllano e stilano classifiche (rating) che permettono ai gestori di punire o licenziare chi è ritenuto meno “efficiente”.
In questa galassia variegata, i ciclofattorini delle consegne a domicilio sono una minoranza, circa 10mila in tutto il paese. Sono al centro dell'attenzione rispetto ad altri perché attraverso le loro lotte hanno conquistato una maggiore visibilità e hanno stanato il mondo politico, sindacale e istituzionale che fino ad ora li aveva ignorati. Soprattutto nelle città di Milano, Torino, Bologna e Roma si sono visti nelle piazze dare vita a colorate e combattive manifestazioni, e come hanno affermato i rider organizzati di Torino “non abbiamo assolutamente intenzione di limitarci a parlare solo tramite tavoli di confronto, mail e messaggi whatsapp e che siamo pronte e pronti a batterci per ciò che ci spetta”.
Una mobilitazione che ha spiazzato anche i media di regime che hanno sempre descritto questi lavoratori “ragazzi”, “funamboli su due ruote”, dei “folletti colorati” delle nostre città come denunciano i Deliverance Milano, e non salariati, supersfruttati come gli altri precari. “Il caporalato digitale nei meccanismi che ne sono alla base, dal nostro punto di vista, non è diverso dal caporalato delle campagne...non ci sentiamo diversi dagli operai della logistica o dai vessati dal lavoro nero nel commercio e del turismo”.
Le proposte di Merola, Zingaretti e Di Maio
Davanti a questa presa di coscienza i governanti borghesi non potevano far finta di niente. Pensando più alla perdita della poca reputazione che riscuotono tra i giovani lavoratori (e dei voti) che ai loro interessi sono state avanzate alcune proposte. Ha iniziato il sindaco PD di Bologna Virginio Merola con una “carta dei diritti” dei riders che operano in città, una sorta di patto territoriale firmato da alcune organizzazioni che rappresentano i lavoratori. Nonostante sia nata dalla pressione e dalle iniziative dei cilofattorini è molto generica e non impegna in maniera effettiva le multinazionali che attraverso le piattaforme digitali lucrano sulle consegne.
Di seguito si è fatto avanti il governatore del Lazio Zingaretti proponendo una legge regionale cercando di bruciare sul tempo quella che Di Maio si apprestava a presentare. Anche questa una proposta parziale e del tutto insufficiente che mira ad ottenere alcuni riconoscimenti come assicurazione, previdenza, formazione, retribuzione minima, controllo del rating (la classificazione d'efficienza del lavoratore) ma senza chiederne l'eliminazione, ma sopratutto senza considerarli lavoratori subordinati, in linea con la sentenza del Tribunale di Torino che viene contestata dai riders.
Infine è arrivato Di Maio che prometteva d'inserire la questione nel “decreto dignità” con un'apposita voce dedicata ai riders. La sua proposta era piuttosto stringente nei confronti delle aziende delle consegne a domicilio tramite piattaforme digitali che avrebbero dovuto equiparare i loro “collaboratori” a dipendenti. È bastato però che Gianluca Cocco, amministratore delegato dell'azienda più potente, la tedesca Foodora, facesse la voce grossa e minacciasse di abbandonare l'Italia per indurre Di Maio al dietrofront, rimandando tutto a un incontro tra le parti interessate che si svolgerà il 2 luglio.
Di Maio ha lanciato anche una frecciata ai sindacati confederali mettendo in dubbio la loro rappresentatività poiché Cgil-Cisl e Uil sono estranei alle lotte dei riders. Tutto vero perché le lotte sono nate dall'autorganizzazione dei lavoratori ma la sua accusa è sembrata sopratutto un pretesto per cercare di aizzare le divisioni dentro un movimento di lotta che essendo allo stadio di formazione e consolidamento è ancora alla ricerca dell'unità al suo interno.
Le ultime mosse
Il ministro dello Sviluppo economico e del lavoro ha riposto nel cassetto la proposta congelando il decreto, lasciando campo libero alle proposte padronali. Quattro aziende che consegnano cibo a domicilio: Foodora, Foodracers, Moovenda e PrestoFood hanno promosso una “Carta dei valori” del food delivery
(cibo a domicilio) che ricalca le proposte di Zingaretti e del sindaco di Bologna ma che riconferma la volontà di proseguire con i contratti di collaborazione continuata e continuativa, i famigerati Co.co.co.
Le organizzazioni dei riders le ritengono giustamente del tutto insufficienti e vogliono che siano rispettati gli aspetti più avanzati contenuti nella “clausola riders” promessa da Di Maio e poi ritrattata. Il comunicato dei milanesi Deliveroo strike rider Milano è chiaro al proposito: “il riconoscimento del rapporto di subordinazione, attestato dall’articolo 1 e 2 della bozza del decreto, non può essere evaso, anche perché riguarda tutti i lavoratori delle piattaforme. Del resto lo diciamo dall’inizio, da Torino a Roma passando per Milano, che noi fattorini non siamo imprenditori di noi stessi, ma lavoratori dipendenti. Altro punto su cui non abbiamo alcuna intenzione di mollare è l’abolizione del cottimo, in ogni sua forma (misto, con il differenziale chilometrico, puro).”
Questi sono due pilastri fondamentali assieme alla copertura previdenziale di tutti i lavoratori e al salario minimo garantito in relazione a un contratto collettivo nazionale, al rifiuto del rating
(un punteggio assegnato senza che se ne conoscano i parametri di giudizio) e il ranking
(la classificazione in base alle prestazioni). Queste sono le basi che i rappresentanti dei riders pongono per iniziare un tavolo di contrattazione.
Il 2 luglio al Ministero del Lavoro a Roma c'è stato un presidio di riders provenienti da tutta Italia per supportare le proprie rivendicazioni. Le parole d'ordine sono chiare: “Contratto” e “Non per noi ma per tutti” a sottolineare come la lotta dei ciclofattorini rientri in quella più generale dei lavoratori per ottenere la propria dignità. A questi lavoratori va tutto il sostegno del PMLI e il plauso per aver alzato la testa con coraggio, reclamato i propri diritti e aver risposto alla sentenza sfavorevole di un tribunale con la mobilitazione e la lotta di piazza.
4 luglio 2018